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scuola

Lettera “riservata e segretissima”

al  priore di Barbiana

di Bruno Becchi

Il prof. Bruno Becchi, che insegna lettere alla scuola media di Borgo San Lorenzo, ha avuto qualche “contrasto di opinione” con alcuni suoi colleghi in merito al fatto di bocciare o meno un paio di ragazzi. E un suo collega gli ha fatto notare che “Don Milani si sarebbe rivoltato nella tomba”. Becchi, che non ha apprezzato questo tipo di approccio e di rilievo, ha scritto una riflessione, sotto forma di lettera al priore di Barbiana. La pubblichiamo molto volentieri, auspicando che essa offra spunti per un dibattito sullo stato dell’insegnare e dell’apprendere, sulla situazione nelle nostre scuole, un dibattito per il quale invitiamo tutti, e in particolare insegnanti e genitori, a contribuire.

Caro don Lorenzo,

                            vincendo non poche resistenze, le scrivo questa lettera “riservata e segretissima” che le invio “all’oltretomba”[1], per dirle con tutta franchezza che di lei non posso più sentir parlare. O meglio, di lei non posso più sentir parlare … a sproposito. È veramente avvilente constatare come ella venga tirata qua e là per la tonaca – anche da chi non molti lustri or sono si sarebbe guardato bene dal farlo - per ungere affermazioni, scelte o non scelte con il sacro crisma del suo, oggi, venerato nome. E questo, in modo assai paradossale, per creare consenso e condivisione, quasi in una sorta di pena del contrappasso per chi in vita ha detto e fatto cose che hanno suscitato forti contrasti e non pochi dissensi. Tuttavia gli slogan, le frasi fatte, i luoghi comuni, proprio per la loro intrinseca natura, non richiedono un supplemento di analisi, di riflessione e di ragionamento e quindi sono comodi da accettare e facili da pronunciare. Poi fanno spesso effetto fra gli astanti.

       Ma che essi siano pronunciati tra crocchi ristretti e consessi allargati di insegnanti è cosa da fare un po’ specie. Non è la scuola un luogo deputato, almeno sul piano teorico, al confronto di idee e all’esercizio del pensiero critico in funzione dell’insegnamento e della formazione? Ed allora perché “fermare” – oggi si dice così! – un ragazzo, cioè non ammetterlo alla classe successiva, significa inevitabilmente “far rivoltare don Milani nella tomba”?. E’ un automatismo banale ed inopportuno; sono parole per molteplici motivi fuorvianti. Infatti è di cattivo gusto e storicamente scorretto, far parlare i morti a sostegno delle proprie tesi, idee e convinzioni; è presuntuoso arrogarsi il diritto di proporre come oggettiva un’interpretazione di pensiero – o presunta tale - che per sua natura è soggettiva; è frutto di arroganza non rispettare il lavoro di colleghi che conoscono la realtà contingente del ragazzo e della famiglia molto meglio di chi ha davanti agli occhi solo un nome e l’eventuale cittadinanza, che esso tradisce; è sbagliato applicare categorie generali a casi particolari; è segno di superficialità parlare di cose che non si conoscono, a maggior ragione se tali “cose” riguardano direttamente le persone e soprattutto se tali persone si trovano in una fase importante della loro crescita e della loro maturazione umana.

       Ah, “bocciare”! Ecco la sola cosa che si sottolinea di quel “piccolo grande libro” uscito dalla scuola di Barbiana! È tutto qui Lettera a una professoressa? Non scherziamo! Il problema della scuola media italiana è che si boccia troppo oppure che si insegna poco? Se tutto si riducesse al primo corno del dilemma, la soluzione sarebbe facilmente trovata. Purtroppo non è così. Il nucleo essenziale del sistema scolastico italiano, almeno nei suoi primi gradi, è che non si riesce ad insegnare o, nella migliore delle ipotesi, si riesce a farlo solo con inenarrabili difficoltà e tra mille ostacoli che ne riducono l’efficacia. Qui la questione si fa davvero complessa e caratterizzata da un insieme di fattori fra loro interagenti. Ridurre tutto al bocciare significa quindi sminuire i problemi della scuola ed allontanare lo sguardo da ogni possibile concreta soluzione. La bocciatura è una triste conseguenza di un sistema che per molti versi non funziona, non la sua causa primordiale. Ne vuole un esempio?  Ecco, don Lorenzo, il suo Gianni era stato maldestramente bocciato a causa della sua timidezza! Sa però qual è la “timidezza” dei nostri ragazzi? Quella che li porta ad essere maleducati, provocatori ed arroganti con compagni ed insegnanti e a rendere impossibile la vita in classe ad ogni giovane spaurita supplente. Ma anche questo è ben poca cosa, oserei dire, in confronto al semi-analfabetismo generalizzato e al totale disinteresse verso tutto ciò che, attorno a loro, conta da un punto di vista civile, sociale, culturale.

       In tale contesto non è preferibile trattenere ancora accanto a noi i ragazzi, che da una tale scelta possano trarre giovamento, per cercare di ottenere in quattro anni quel qualcosa in più rispetto al nulla o quasi ottenuto in tre? Non significa questo, continuare a farsi carico della loro situazione ed aiutarli a crescere in modo più concreto rispetto al “pilatesco” spingerli del tutto disarmati verso una scuola superiore che riserverà loro soltanto sconfitte ed umiliazioni?

       Non è forse più milaniano – le chiedo - tentare di posizionare l’asticella delle pretese scolastiche a misura di ragazzo invece di deporla a terra e consentire ad essi di aggirarla e di uscire dalla scuola media senza alcun tipo di abilità e competenza?

       Lei, caro don Lorenzo, diceva di non bocciare, ma, al tempo stesso, non acconsentiva nemmeno che i ragazzi se ne andassero dalla sua scuola da analfabeti. Lei diceva di non bocciare, ma chiedeva il tempo pieno. E se i suoi tentativi di coinvolgere ed interessare un ragazzo fallivano, lei ci riprovava daccapo, non demordeva.. Perché dunque non dovrebbe esser consentito anche a noi di ritentare l’anno successivo, se in quello precedente non è stato ottenuto un minimo accettabile di risultati sperati? E non tiriamo in ballo gli orari e più in generale il tempo scuola; è stato proprio lei più di quarant’anni fa a sostenere la non esportabilità del modello scolastico di Barbiana. Quindi qualsiasi tipo di paragone postumo tra la sua e la nostra scuola, tra il suo e il nostro modo di insegnare, tra i suoi ed i nostri criteri di valutazione, non regge e non può reggere. Questo il punto. Dunque le confesso che non ne posso proprio più di sentire luoghi comuni in salsa milaniana serviti da qualcuno ogni volta che sembra offrirsene l’occasione. Lo trovo di pessimo stile per un insegnante e addirittura offensivo nei confronti di tutto quanto di importante lei ha detto, scritto e fatto.

       Allora a noi insegnanti che cosa resta? Resta la possibilità di lavorare con i ragazzi in difficoltà in maniera per quanto possibile personalizzata, con la definizione di obiettivi alla portata delle loro reali capacità e con l’eventualità – quale extrema ratio – di un allungamento dei tempi del percorso della scuola secondaria di primo grado da tre a quattro anni. E questo con la piena consapevolezza che si tratta di una scelta in cui debbano essere tenuti sempre presenti il punto di partenza ed il fine ultimo del nostro operare: il bene del ragazzo.

       Del resto è stato proprio lei, priore, che ha invitato a non abbassare troppo le richieste fino ad annullarle; è stato lei che ha scritto “Chi sa volare non deve buttar via le ali per solidarietà con i pedoni, deve piuttosto insegnare a tutti il volo”[2]. Ciò è possibile creando mete attentamente calibrate sulle reali possibilità di ciascuno, ma il cui raggiungimento comporti anche sforzo, impegno e responsabilità. Poi che sappiano o meno chi è Manzoni è un accidente, aristotelicamente parlando; la sostanza è che siano in grado di procurarsi notizie su di lui quando hanno bisogno di sapere chi è. Dunque una questione di metodo; di metodo di lavoro e di comportamento ancor prima che di studio; di articolazione del pensiero ancor prima che di applicazione di esso ad un contenuto specifico. È questo l’obiettivo principale che noi insegnanti di scuola media dobbiamo porci; solo così potremmo sperare di aiutare questi ragazzi ad essere realmente protagonisti della loro vita e non spettatori passivi di quella degli altri.

       Non è forse anche questo un modo di dare attuazione a quel suo grido lanciato dal letto di morte: “Fate scuola, fate scuola; ma non come me, fatela come vi richiederanno le circostanze. (…) Guai a voi se vi diranno: ‘Il priore avrebbe fatto in un altro modo’. Non dategli retta, fateli star zitti, voi dovete agire come vi suggerirà l’ambiente e l’epoca in cui vivrete”[3]?

       Se, nonostante questo, ci sarà ancora qualcuno disposto a tirarla in ballo in maniera tanto sconsiderata, significherà che costui non è ancora riuscito a capire quanto il suo silenzio sia incomparabilmente più prezioso delle sue parole.      

Un povero insegnante italiano dell’inizio del III millennio[4].


 

[1] ) Cfr. D. L. MIILANI; Esperienze pastorali, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1997, p. 434.

[2] ) Ivi, p. 192.

[3] ) Cfr. B. BECCHI, Lassù a Barbiana ieri e oggi. Studi, interventi, testimonianze su don Lorenzo Milani, Firenze, Polistampa, 2004, p. 265.

[4]) Cfr. D. L. MIILANI; Esperienze pastorali, cit., p. 437.

 

 

 

© il filo, Idee e notizie dal Mugello, agosto 2007

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