“Mugello Fuoriporta” presenta Dario Nardini, antropologo e… “lottatore”
BORGO SAN LORENZO – Con la rubrica “MUGELLO FUORIPORTA, le eccellenze mugellane si raccontano” vorremmo presentare le esperienze di persone della nostra zona, giovani e non, che si sono messe in evidenza fuori dal Mugello, in Italia o all’estero.
Iniziamo con il giovane sampierino Dario Nardini (ora abita a Panicaglia), che è partito dal suo paese, per studiare e ricercare in varie parti del mondo, dalla Bretagna all’Australia. E non senza successo.
In questa intervista al “Filo” Dario si racconta.
Da quanto tempo hai lasciato il Mugello? Raccontaci ora dove vivi, la tua formazione e di cosa ti occupi. Non ho ma lasciato definitivamente il Mugello, a dire il vero. Me ne sono allontanato una prima volta per andare a studiare antropologia a Siena, una seconda per svolgere la ricerca di campo per la mia tesi in Bretagna, una terza l’anno scorso per andare a Milano, dove ho iniziato il Dottorato in Antropologia Culturale e Sociale alla Bicocca. A settembre, poi, mi sono allontanato un po’ di più e sono partito per andare sulla Gold Coast australiana a studiare il surf (o meglio, quella che viene definita la “surfing culture”), sempre nell’ambito del mio progetto di ricerca dottorale. Temo – e spero – che questa volta il percorso per tornare sia più lungo, perché rientrare in Mugello, purtroppo, significherebbe dover abbandonare i miei progetti di ricerca.
Spiegare l’antropologia e l’etnografia a chi non le fa è sempre difficile per noi che ci siamo invischiati fino al collo e che tendiamo sempre a complicarci la vita. Sintetizzando molto, l’antropologia studia la differenza culturale, vale a dire il modo in cui l’uomo, organizzato in società, sviluppa sistemi culturali diversi (vale a dire diversi modi di fare e vedere le cose, il mondo e la vita), interagendo con gli altri uomini e gli altri gruppi, in un particolare contesto sociale, storico, ambientale. L’etnografia, invece, è il modo che abbiamo per ficcare il naso negli affari degli altri e per dar conto di tale differenza. Cosa fanno questi “Altri” di uguale/diverso da noi? Perché fanno uguale/diverso? Cosa pensano? Com’è che danno senso a quello che fanno?
Io personalmente ho dedicato la mia formazione all’antropologia dello sport e del corpo e alla questione delle identità collettive. In particolare, ho scritto una tesi sulla lotta bretone e sulle sue connessioni con l’identità locale della Bretagna francese, e adesso sono in Australia per cercare di capire chi sono i surfisti che cavalcano le famosissime onde della Gold Coast, come danno senso a quello che fanno e secondo quali traiettorie di vita arrivano a dedicare una parte importante della loro esistenza al surf e a definirsi, appunto, “surfisti”.
Hai pubblicato recentemente il tuo primo libro, “Gouren, la lotta bretone. Etnografia di una tradizione sportiva”, tratto dalla tesi di Laurea Magistrale in Antropologia a Siena. Qual è stato il tuo primo impatto con questo tipo particolare di lotta? La mia tesi sulla lotta bretone si è aggiudicata il Premio Etnographica, un riconoscimento indetto ogni anno dalla Biblioteca di Sardegna per le tesi a carattere antropologico. In palio c’è la pubblicazione. È una rara opportunità per gli studenti italiani di antropologia che abbiano voglia di proseguire gli studi in vista di una carriera in ambito accademico, e mi sento particolarmente orgoglioso di questo risultato.
Faccio judo da quando sono piccolo, allo storico Judo Club Budokwai Borgo San Lorenzo. Per anni ho fatto le gare e ho dedicato a questo sport una bella fetta di vita, energie e risorse. Quando ho scoperto che in Europa e nel mondo (anche in Sardegna!) ci sono moltissime forme di lotta dette “tradizionali”, che vantano cioè un legame forte con i luoghi e le società in cui vengono praticate, ho trovato l’occasione perfetta per incrociare queste due grandi passioni, l’antropologia e il judo. Sono dunque partito per la Bretagna con l’idea di fare un’etnografia della lotta bretone (il Gouren), e ho scoperto una pratica antica ed emblematica, che ha una profonda valenza culturale e identitaria non solo per quanti la praticano, ma anche per quanti si sentono bretoni. Il primo approccio è stato un po’ spiazzante. Il judo, infatti, è molto diffuso in Francia e rappresenta per questo il principale concorrente del Gouren per quanto riguarda la capacità di attrarre praticanti, pubblico e – non ultime – sovvenzioni. I judoka, di conseguenza, non sono visti proprio di buon occhio dai gourenerien, i lottatori bretoni. Questo ostacolo apparente, però, si è rivelato anche un ottimo strumento comparativo per la ricerca, perché ha fatto emergere in maniera evidente quella differenza che, abbiamo detto, è oggetto dell’analisi antropologica: in fondo, io e i lottatori bretoni facevamo più o meno le stesse cose, cioè forme di lotta simili, cui davamo però un significato molto diverso. Devo dire tuttavia che, superata questa prima soglia di diffidenza, sono stato accolto con grande spirito di ospitalità dai lottatori, che mi hanno fatto sentire a casa. Con qualcuno di loro, nel corso della ricerca, è nato anche un bel rapporto di stima e di amicizia.
Com’è la tua esperienza di studi fuori Toscana? Riguardo alle tue esperienze all’estero, quali sono gli aspetti più positivi? Quali le difficoltà? C’è qualcosa in particolare che ti manca del Mugello? E cosa ricordi in modo particolare della tua terra?
Partire non è mai facile. Molti amici, come me, hanno un rapporto ambivalente col Mugello, terra di provincia che, in quanto tale, non offre molte opportunità formative o professionali, ma da cui difficilmente si riesce a stare lontani. Finora anch’io me ne sono sempre andato “con riserva”, lasciandomi sempre una scusa per tornare. Tutte le esperienze fuori che ho avuto la fortuna di fare, in Italia o all’estero, sono state decisamente produttive, da tanti punti di vista diversi. A Siena ho vissuto un ambiente universitario piccolo ma stimolante, e ho trovato un Maestro. Senza il suo esempio e la sua fiducia, probabilmente, avrei chiuso dopo la laurea, facendo altro. In Bretagna ho fatto la mia prima, vera, esperienza di campo fuori casa; qui ho imparato ad apprezzare il Calvados (e a odiare le onnipresenti galettes) e ho cominciato a masticare un po’ meglio il francese. A Milano ho trovato un ambiente competitivo e mi sono scontrato per la prima volta con la sconcertante realtà delle dinamiche di potere, ma ho anche respirato un’atmosfera da città europea, aperitivi, hipster e ristoranti cinesi. In Australia infine ho scoperto un altro ritmo di vita e gerarchie di valori molto diverse rispetto alle nostre.
Eppure, nonostante tutto, persino i miei ambiti di interesse nel mondo dell’antropologia tradiscono il rapporto che mi lega ai luoghi in cui sono nato e cresciuto. La questione dell’identità, per esempio, nasce dalla consapevolezza dell’influenza che il contesto mugellano ha avuto sulla mia vita, sul mio carattere, sulle mie priorità. Non è un caso, infatti, che la mia prima esperienza etnografica si sia concretizzata proprio in una tesi triennale sugli opposti destini del Palio della Fortezza e dell’Ingorgo Sonoro, le feste del mio paese, San Piero. In definitiva credo che, molto banalmente, il Mugello sia stato e sia, per me e per quelli della mia generazione, un’ottima mamma, un ambiente relativamente protetto in cui crescere e curare i rapporti personali. Ma, come sempre, essere poco esposti ai rischi significa anche essere poco esposti alle opportunità.
Progetti futuri? Progetti ne ho tanti, tutti convergono però nella speranza di riuscire in qualche modo, da qualche parte, a continuare con l’antropologia e con la ricerca. Per il momento ho ancora due anni di dottorato da portare a termine, e sono molto concentrato su questo. A partire da febbraio tornerò sulla Gold Coast per concludere la mia etnografia, poi rientrerò in Europa e dividerò il mio tempo tra Milano, la sede della mia scuola dottorale, Marsiglia, dove ho attivato una cotutela per il dottorato, e Bordeaux, dove c’è un centro di ricerca molto attento alle tematiche di cui mi occupo, sperando di riuscire a concludere per tempo la stesura della tesi. Dopodiché un’alternativa valida potrebbe essere un post-doc, cioè un finanziamento per una ricerca dopo il dottorato. Non so ancora dove né come, però: non è mai facile pianificare per tempo questi percorsi, purtroppo.
Potremmo dire che la vita è un’onda e va cavalcata al massimo. Grazie Dario per il tuo tempo e per aver condiviso la tua bella esperienza con noi. In bocca al lupo per la tua ricerca e ti auguriamo di cavalcare a lungo “the Perfect Barrell”.
NOTA PER I LETTORI: Se anche tu hai fatto o stai facendo esperienze di successo all’estero o fuori dal Mugello e ti va di raccontarti, oppure se conosci persone che lo hanno fatto o lo stanno facendo, scrivici, a filomugello@gmail.com.
(Rubrica Mugello FuoriPorta)
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 9 dicembre 2016