Don Luca,
missionario a Salvador
In Brasile con Agata Smeralda
Don
Luca è
a Salvador da ventun mesi. Dopo essere stato parroco per undici anni a San Piero a Sieve, ora vive tra i poveri di Salvador
Bahia, in Brasile, in una favela difficile, nel bairro (quartiere) di
Maçaranduba.
E’ domenica, di primo
mattino –i parrocchiani si ritrovano per la Messa alle 7.30-, e don Luca Niccheri ha un peso sul
cuore. Il giorno prima sono stati uccisi due ragazzini della sua parrocchia, 14
e 16 anni: avevano tentato una rapina, era arrivata la polizia, crivellato il
primo con 20 colpi di pistola, freddato con due colpi al cuore il secondo
nonostante avesse gettato la pistola e fosse uscito a mani alzate.
Don Luca
celebra
Messa tra la sua gente, durante l’omelia fa qualche passo in mezzo alle panche,
quasi a voler essere ancora più vicino.
Così,
quando parliamo del suo primo anno di esperienza missionaria in Brasile, don Luca lo
sottolinea con calore. “Qui si sperimenta una qualità dell’accoglienza che è
fuori scala rispetto al consueto. Non solo mi sono sentito sempre ben accolto,
ma c’è un affetto, una calore, una disponibilità, una pazienza incredibili. Per
non dire della vitalità, che si esprime anche con la musica, il ritmo, che qui
sono una cosa straordinaria. Ancora, qui la
dimensione religiosa è estremamente presente in ogni manifestazione della vita,
mentre in Italia si tende a rinchiuderla nella dimensione privatistica delle
opinioni.
Di contro –sorride- c’è
la loro puntualità, diciamo, molto approssimativa e, per quanto mi riguarda, una
condizione di vita che non avevo ben focalizzato all’inizio.” Il sacerdote
mugellano –è originario di Cavallina- si ferma, riflette su di sé: “Qui sento la
mia condizione di ‘straniero’, io qui sono gringo. E’ una situazione
particolare, ora l’extra-comunitario, pur con qualche privilegio –penso ad
esempio all’assicurazione sanitaria che loro non hanno e che è una bella
garanzia- sono io, e a questo non ero certo abituato. Diceva George Amado che i
prezzi, al “Mercato Modelo” di Salvador, variano al variare dell’accento. Voleva
dire che in qualche modo dello straniero ci se n’approfitta, sei una persona
che3 ha meno diritti, che deve render conto di tutto alla Polizia Federale”.
Chiediamo
a don Luca, se ora, qui a Salvador, si senta un po’ solo. Era
partito da Firenze con una missionaria laica, che poi però è rientrata alla base
anzitempo. “Sicuramente –risponde- questo esser qui da solo può essere una
difficoltà, anche se poi la vera solitudine è quella degli affetti, non quella
del compagno di strada che manca, e che certo se ci fosse sarebbe meglio. E
questa rete di affetti esiste, ed è quella che non vorrei perdere, all’assenza
della rete di affetti proprio non vorrei abituarmi”. L’Italia, confida, talvolta
gli manca: “E’ il mio mondo, e continua ad essere il mio mondo. Per questo mi
sono imposto di venire in Italia un mese l’anno, per non perdere i contatti. Sia
a San Piero, così come al Sacro Cuore a Firenze, due luoghi che mi hanno
lasciato molto sul piano affettivo: sperimento in questi casi il difficile
equilibrio che tocca a tutti i preti, chiamati a coltivare gli affetti in loco,
ma anche a non essere invasivi nel cammino che le comunità parrocchiali fanno
dopo di te e senza di te”.
Ma
perché don Luca è
proprio a Salvador? “Può sembrare
banale, perfino retorico. Ma la scelta è venuta naturale, maturata negli anni,
lungo 15 anni di conoscenza della Bahia. In realtà avevo dato una disponibilità
abbastanza generica alla missione. La prima esigenza era di incrociare
un’esperienza di vita e di fede diversa da quella che stavo facendo, per far
risaltare meglio quello che è importante da quello che invece è secondario. In
realtà poi tutto mi ha condotto qui: la mia storia, fatta di svariate visite,
almeno sette od otto, tutte non cercate, qui a Salvador, la conoscenza delle
persone, della lingua, il fatto che qui la Diocesi di Firenze aveva
un’esperienza missionaria da tanti anni e l’esigenza di dare compimento
all’esperienza della vecchia parrocchia, ora suddivisa in due e assunta in pieno
da preti del posto, con la consapevolezza che questa comunque era un’esperienza
importante, da continuare e rilanciare in un’altra realtà. Tutto ciò mi ha
portato a indicarmi la destinazione, visto che a San Piero ritenevo di aver
ormai svolto il mio compito”. E sulla spinta alla missione riflette ad alta
voce: “in realtà non è stata una scelta fatta a
tavolino, come del resto non lo era stata quella di "farmi prete". In ambedue i
casi si è trattata dell'intuizione di una chiamata a lasciare quello che stavo
facendo per avventurarmi in territori sconosciuti e pieni della presenza di Dio.
Non so come altro spiegarla...”.
Bilanci
don Luca non si sente ancora di farne: “Sono ancora un
apprendista. Diciamo che sono contento. Contento di essere qui, curioso di
quello che ho intorno. Due sentimenti forti che ho in me sono la novità, la
voglia di conoscere, di immergermi in un altro mondo, e dall’altra la mancanza
di affetti consolidati, che non mi sono potuto portare dietro. In questo senso
le moderne tecniche di comunicazione sono una benedizione. Con Skype ci si può
parlare guardandosi, non è certo come abbracciarsi o essere viso a viso, ma è
pur sempre meglio che scriversi sperando che tra 15 giorni la lettera arrivi”.
Cosa fa un missionario,
un parroco italiano a Salvador? “Non so se esista una giornata tipo. Mi alzo
alle 4.30-5, sto in casa fin verso le 8, spesso vado al centro pastorale, a
preparare incontri, progetti, sogni ad occhi aperti; incontro persone. Poi
pranzo, di solito a casa –c’è una signora che mi prepara i pasti-, e nel
pomeriggio visito le famiglie, qualche volta faccio le compere che deve fare uno
che vive da solo. E alle 19 c’è la Messa in parrocchia, seguita sempre da
qualche riunione. Infine il rientro a casa, intorno alle 21. Vado a letto
presto, anche perché a Salvador, alle 6.30 colazione, alle 12 pranzo, alle 17.30
cena, si fanno orari molto ospedalieri!!”.
E don Luca
non manca di coltivare un sogno:
dare un doposcuola, un luogo di aggregazione, ai bambini e ai ragazzi del
quartiere. Per toglierli da una strada troppo pericolosa e disumana. Ci sta
pensando. E ha promesso che quando i tempi saranno maturi, ce lo farà sapere e
ci chiederà una mano.
In
Brasile con Agata Smeralda
Nel
luglio scorso ho avuto modo di recarmi a Salvador Bahia, in Brasile, per
conoscere il lavoro del Progetto Agata Smeralda,
l’associazione fiorentina che da anni opera nella Bahia e in altre parti del
mondo attraverso il sostegno a distanza, e con la quale anche numerosi mugellani
hanno da tempo un’adozione. E ho potuto così incontrare don Luca Niccheri.
Ed è proprio vero: la conoscenza diretta, l’immergersi in
una realtà molto diversa, è tutt’altra cosa rispetto a quanto si sente dire e a
quanto si legge. Per questo non vi è pretesa, con queste parole, di riuscire ad
illustrare con esattezza l’esperienza fatta. Solo di una cosa vorrei rendere
testimonianza. Che proprio in realtà come quella incontrata a Salvador, segnata
da grandi contrasti tra ricchezza e miseria, da un incredibile degrado umano
–fatto di droga, di violazioni dell’infanzia, di prostituzione, di violenza-, è
possibile incontrare segni di speranza davvero luminosi e straordinari.
I missionari –suore e sacerdoti- sono una di queste luci.
Perché leggi loro in volto che credono in qualcosa di grande. Che spendono la
loro vita con gioia, senza farsi schiacciare dalle paure e dal calcolo. Le
riconosci dal sorriso, le riconosci dagli occhi. In Brasile, fin dal primo
giorno, ne abbiamo incontrate diverse,
nei tanti centri sostenuti dal Progetto Agata Smeralda
che abbiamo visitato. Custodi e animatrici infaticabili di quelle che, nel
“deserto” delle favelas sono vere e proprie oasi di speranza e di crescita
umana, scuole materne, centri sociali, doposcuola, case famiglia, centri di
formazione professionale, parrocchie dove la comunità è una realtà concreta,
estremamente sentita.
Queste persone ci sono. Anche qui da noi, e, tante, in
Paesi lontani, in Costa d’Avorio come in India, in Brasile come in Perù e in
tante terre. E’ bene non dimenticarlo. E’ bene non dimenticarli. Stare in
contatto. Aiutarli. Sostenere l’opera di associazioni impegnate a promuovere la
crescita di quelle comunità. E’ un vantaggio anche per noi. Perché ci insegna a
guardare oltre le meschinità che spesso i nostri meccanismi sociali ci
propinano. Perché ci dice che è possibile spendere la vita per qualcosa che vale
davvero. E a don Luca abbiamo chiesto se non sia il caso di promuovere qualcosa,
qui in Mugello, per dargli una mano, per sostenere attività per i bambini della
sua parrocchia. Ci ha detto che ci sta pensando. E noi cercheremo di farci
trovar pronti.
Paolo Guidotti
© il filo, Idee e notizie dal Mugello,
settembre 2009