DAI LETTORI – Il bigonaio e la lavandaia
MUGELLO – Un altro racconto di Luca Tagliaferri, che stavolta ci fa rivivere antiche attività lavorative. E racconta del costruttore di bigonce e della lavandaia. Antiche, e praticate fino a meno di un secolo fa.
A metà degli anni 90’, cioè 1940/1950, la rivoluzione industriale già avanti nel tempo, non aveva coinvolto i paesi di campagna, collina e Appennini.
Cosi le famiglie di quelle stagioni, erano ancora fondate sul lavoro artigianale. Amedeo, ancora boscaiolo e carbonaio, con la sua famiglia numerosa, moglie, due figlie e due figli si arrangiava con vari lavori. Ma aveva imparato da suo padre, il mestiere di “Bigonaio” ovvero colui che costruisce “ bigonce” e “ tini” per le vendemmie.
La “bigoncia” era un oggetto indispensabile per la vendemmia. una sorta di recipiente, alto circa un metro, in legno di castagno, con il “fondo” a prova di svernamento e la bocca aperta. Una sorta di cono tronco rovesciato con la parte più stretta in basso.
La sua costruzione richiedeva molta maestria ma in questo Amedeo non aveva concorrenti. Recandosi quasi giornalmente nel bosco, cercava tronchi di rovere o di leccio, caduti e già essiccati per ricavarne i fondi della bigoncia. il difficile arrivava con le “doghe”. Servivano paline di castagno giovani, lunghe e dritte da recidere al piede e trasportarle rigorosamente a spalla alla stanza adibita a bottega.Poi dovevano essere segate a misura e poste a stagionare alle intemperie meteo.
Con le doghe già pronte si provvedeva alla costruzione della “bigoncia”. Primo passo, tagliare una rondella tonda dal tronco del rovere alta circa tre centimetri, nel perimetro esterno della quale si effettuava una scanalatura profonda circa 1 cm, nella quale venivano fissate le doghe.
Le doghe, tagliate, mondate con il “coltello a petto”, lisciate con le “pialle” venivano allineate una accanto all’altra partendo dal fondo, con lo stesso principio architettonico che dovevano sorreggersi una con l’altra senza chiodi di nessun genere. La precisione nel loro accostamento era sostanziale, dovendo contenere liquido senza versamenti.
Nella bottega di Amedeo si trovavano tutti gli “arnesi” necessari allo scopo: seghe, asce, pialle, mazze, coltelli e coltello a petto, raspe, sgorbie, un banco di legno con una morsa, incudine e martelli. E l’immancabile grembiale di stoffa per proteggere le vesti dalla segatura del legno.
Dopo una intera giornata di lavoro la bigoncia era pronta per essere consegnata al contadino richiedente. Si passava alla seconda poi su fino ad esaurimento della richiesta.
Alcuni chiedevano anche la fornitura di Tini e Caratelli per il vino e per il vinsanto , ma per la complicata costruzione di questi, soprassiedo. Marianna la moglie di Amedeo, ritrovatasi con una cesta piena di panni sporchi, una volta a settimana doveva fare “il bucato” cioè lavarli.
In quel tempo, i panni lenzuola, federe, camicie, pantaloni, camiciole, calzini e calzettoni si lavavano con il “Ranno” ovvero con un sapone fatto esclusivamente con cenere di legna.
La Marianna prendeva un bidone costruito con doghe di legno, dal marito Amedeo, grande quasi come una piscina e lo riempiva di acqua bollente, scaldata sul fuoco acceso, possibilmente all’aperto. Mentre l’acqua bolliva ancora, versava nel contenitore un secchio di cenere vagliata “ranno” e rimestava con forza.
Ottenuto il composto, vi adagiava tutti i panni , uno ad uno finché tutti erano alloggiati nel bidone. Con l’acqua ancora caldissima frullava i panni con un forcone di legno profumato, aggiungeva rosmarino o salvia secondo le possibilità del momento, in estate fiori secchi di lavanda, per far odorare il “bucato”.
Aspettato il raffreddamento del contenitore, con l’aiuto di Amedeo o di qualche figlio, estraeva uno ad uno i panni e li strizzava a dovere riponendoli poi in una cesta di vimini asciutta e profumata. Posta la cesta sulla carriola, si recava alla “gora” del mulino dove era stato predisposto un inginocchiatoio per l’ultima sciacquatura dei panni.
Tornata a casa li stendeva sui fili predisposti da Amedeo in estate. D’inverno li poneva nella stalla con le mucche dove poi profumavano di stallatico. Per adesso “il bucato” era concluso e fino alla prossima settimana si accumulano nuovi cenci.
Scoronconcolo – Asino Sapiente
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 28 Aprile 2024