
BORGO SAN LORENZO – Domenica 28 Maggio, con la Messa celebrata in Pieve a Borgo San Lorenzo, assieme a numerosi parroci della zona, il Card. Giuseppe Betori, Arcivescovo di Firenze ha concluso la Visita Pastorale nel Vicariato mugellano.
Al temine lo abbiamo incontrato, e lo abbiamo intervistato.
Eminenza, con quali pensieri conclude la Visita Pastorale in Mugello?
Anzitutto un sentimento di gratitudine perche ho trovato comunità vivaci e impegnate e i preti legati alla loro gente. L’immagine che porto con me è quella di una Chiesa viva, che pur soffre, anch’essa di quello che è il grande problema d’oggi: la riduzione della presenza della Chiesa sul territorio, con tanti luoghi che erano un tempo parrocchie, ora a volte sono ancora luogo di culto oppure hanno cessato anche questa loro funzione, perché sia il clero è diminuito sia le popolazioni hanno una dislocazione diversa rispetto al passato.
Proprio l’altro ieri don Norberto Poli ricordava su Toscana Oggi, a proposito della situazione in Alto Mugello, come lui quasi contemporaneamente a Don Milani, fosse stato inviato in una parrocchia di 80 abitanti che è Visignano, ed oggi lì ci vivono solo due persone, Questi cambiamenti sociali e la riduzione del clero fanno sì che la presenza della Chiesa sul territorio stia modificandosi e devo essere molto grato ai sacerdoti che si fanno carico di tante parrocchie, ormai piccoli gruppi di case e non fanno mancare la loro vicinanza.
Che fare, su questo?
Si fa ancora fatica a capire quale potrà essere il futuro. Certo la tendenza è sempre più chiara e non potremo sempre andare avanti per sottrazione lasciando l’impianto così com’è e tagliando qualche ramo secco. C’è da pensare un modo diverso. D’altra parte la stessa situazione che avevamo trent’anni fa non era quella di centocinquanta anni fa, quando il sistema delle pievi permetteva un’articolazione che si è persa con la trasformazione delle parrocchie in luoghi propulsori di pastorale. Nella storia il modello che stiamo lasciando non è un modello eterno, tutt’altro. Dovremo quindi essere anche noi capaci di inventiva pastorale per capire come stare insieme alla gente, sempre, mantenendo la centralità dell’Eucarestia e questo richiede la presenza dei preti perché solo il sacerdote presiede l’Eucarestia, ma cercando di creare più correlazione, più legami. Questa è una mia preoccupazione.
Ce ne sono altre, di preoccupazioni?
Occorre diventare interpreti, anche su questo territorio, di un’istanza che il Papa pone a tutta la Chiesa. Parlo dell’istanza missionaria. Cioè noi, negli ultimi decenni, abbiamo lavorato molto per rinsaldare l’organicità delle nostre comunità parrocchiali ma forse ci siamo chiusi un poco rispetto al mondo. Che nel frattempo è cambiato moltissimo. Ora dobbiamo esser capaci di stare dentro le dinamiche della società, soprattutto di questa società delle comunicazioni, che non è più una società territorialmente identificabile, e di essere presenti significativamente senza perdere la nostra identità, senza lasciarci assorbire: questo è il pericolo che si può già intravedere, in una certa minore forza del cattolicesimo italiano nei confronti appunto della vita sociale.
Questa minor forza, questa minore presenza la si vede anche nella vita politica?
Comincerei però dalla vita culturale, passerei da quella sociale e poi arriverei anche a quella politica. La scorciatoia di pensare che occorre trovare un’identità politica nostra per poter dare voce alle istanze dei valori cristiani mi pare una scorciatoia che temo possa diventare anche un vicolo cieco. Dobbiamo ripartire, io credo, da una dimensione culturale più forte: occorre ripensare la fede. Ad esempio, cosa significa oggi una fede che proclama l’identità della persona mentre tutti i progressi tecnologici stanno mettendo in crisi la libertà della persona? Oggi gli algoritmi decidono per la metà delle mie cose: quello che vien fuori sul mio computer è dettato da un algoritmo che ha fatto una sintesi del mio uso del pc e mi ha classificato. Io per lui sono un insieme di numeri, non una persona in grado di scegliere. Non mi viene più offerto tutto , ma mostrato ciò che altri hanno deciso mi debba essere offerto, essendo io rientrato in una tipologia di acquirente o di utente. Questo mi mette paura. Noi siamo di fronte a un cambiamento culturale profondissimo e temo che non abbiamo la consapevolezza di come affrontare in termini propri questa sfida che è una sfida epocale. Il Papa parla di cambiamento d’epoca ma questo cambiamento è molto più forte del passaggio dall’epoca preindustriale a quella industriale . O dalla modernità alla contemporaneità, Sono passaggi fortissimi, e credo che quello che ci aspetta sia molto più problematico, non dico preoccupante, ma problematico sì. Lo notano gli stessi autori di questi cambiamenti: abbiamo letto infatti come gli stessi che sono alla base dei progetti sull’intelligenza artificiale stanno facendo passi indietro, dicendo, “Abbiamo in mano qualcosa di troppo pericoloso”. Mi sembra di rivedere la stessa scena che fu di Oppenheimer, Fermi e gli altri, quando fecero la fusione nucleare e poi si accorsero che si poteva costruire una bomba atomica, e infatti la bomba atomica fu fatta e gettata su due città. Non è una cosa diversa quello che sta avvenendo.

Ieri era a Barbiana col Presidente Mattarella, per il centenario di don Milani. Che riflessioni le ha suscitato questo evento?
Il messaggio di don Milani è ancora un messaggio valido, non nelle forme con cui lui ha vissuto la sua missione ma nelle ragioni che lo portarono a fare quello che ha fatto, la scuola e la sua stessa vita. E la ragione è la sua appartenenza a Cristo, perché alla fine sta tutto lì don Milani. Lui stesso lo dice.
C’è un “milanismo” che invece guarda solo ai modi con cui don Milani ha fatto le cose, e vorrebbe ripetere la scuola di don Milani in altri contesti, cosa che lui stesso diceva che non si doveva fare, che non si doveva imitarlo in ciò che faceva. Bisogna invece trarre testimonianza da lui per dire: “Ti converti fino in fondo, o sei un burattino qualsiasi?” Lui non era un burattino, perché la sua conversione è stata una conversione fino in fondo, e gli ha permesso anche di riuscire ad accettare tutte le difficoltà che ha subito dalla Chiesa stessa, senza venir meno. L’altra cosa che secondo me è importante, è la scelta dei poveri. E’ un principio di Gesù, è un principio che vale sempre. Queste due cose caratterizzano don Milani, i poveri e la conversione personale.
Ieri ho notato una cosa, durante l’omelia a Barbiana, che poi Agostini Burberi mi ha convalidato, e ha detto: “Mi piace, lei mi ha aperto qualcosa di nuovo”.
La scritta I care, nella scuola di Barbiana non sta su un muro. Sta infilzata con un chiodo sulla porta della camera di don Milani. Quella non è dunque una delle qualsiasi lezioni di don Milani. Sui muri della scuola di Barbiana ci stanno i cartelli delle variazioni elettorali, i cambiamenti della democrazia in Europa. Quella del cartello I care non era una lezione da imparare , ma era come lui si poneva di fronte ai ragazzi: io mi prendo cura di voi, e per questo voglio che anche voi abbiate cura di tutti. Il primo a dire “Non me frego” è stato proprio lui, perché poteva anche andare a Barbiana e dire me ne frego di voi, penso a un’altra sede, a un altro spostamento. Invece no, lui si prese cura dei ragazzi.
Prendere I Care non come uno slogan, ma come una testimonianza di vita cambia molto, secondo me cambia molto su come guardare don Milani. Non è un maestro, è un testimone. D’altra parte ce lo insegnava già Paolo VI quando diceva che il mondo non ha bisogno di maestri ma di testimoni e apprezzo i maestri quando sono testimoni .
Un’ultima domanda, tornando alla Visita pastorale in Mugello. E’ anche una sorta di commiato, la sua ultima Visita pastorale. Che sentimenti prova?
L’ho detto, anzitutto gratitudine, perché è un’esperienza che mi ha stimolato molto. E c’è sempre bisogno di essere stimolato perché a Firenze non puoi dormire. Se ti addormenti , anche solo una pennichella, sei seppellito subito – sorride – C’è il bisogno di stare sempre sul pezzo, come si suol dire. Questo mi ha arricchito molto. E alla fine ho apprezzato anche ciò che molti giudicano un limite di Firenze o meglio del fiorentinismo, e cioè le contrapposizioni. Quando non diventano fini a se stesse anche le contrapposizioni servono. Se sono fini a se stesse diventano becere e ci squalificano, ma quando sono un modo di risvegliare nell’altro un bisogno di crescere, questo ci aiuta, E io mi sono sentito stimolato a crescere, quando percepivo che qualcosa non veniva pienamente accolto. Poi ho scoperto un buon clero, molto vicino alla gente, un po’ individualista, ma a Firenze questo è naturale…
Infine, cosa l’ha colpita, nei suoi incontri qui in Mugello?
Ho imparato in Mugello, e ho apprezzato il “rincorrere” la gente da parte dei miei preti. Ho imparato che non dobbiamo mai smettere di cercare le persone: non posso stare a Borgo e aspettare che quelli di Olmi vengano, dire “Se vogliono venga qua”. No, bisogna andare noi dalla gente e devo essere molto grato ai preti per questo loro sforzo. Io l’ho fatto per due pomeriggi, loro lo fanno tutte le settimane, è un esempio che mi hanno dato davvero molto bello.
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 29 maggio 2023



