Un vulcano (di fango) in Mugello. Lo sta studiando l’Università
I vulcani sono normalmente imponenti edifici che -come l’Etna o il Vesuvio- incombono (più o meno minacciosi) sul paesaggio circostante pronti a riversare dai loro crateri fiumi di caldissima e rossa lava o altissime colonne di fumo e cenere. Eppure esiste una categoria di vulcani ben diversa da quelli classici: sono vulcani freddi, spesso (ma non sempre) più piccoli, che dai crateri -al posto di lava e cenere- emettono….fango. Si chiamano appunto “vulcani di fango”, per la morfologia a forma di tronco di cono del tutto simile ai loro “fratelli maggiori” magmatici, e sono prodotti dalla risalita in superficie di un mix di acqua, gas, fango e frammenti di roccia. Tali vulcani si formano quando sono presenti acquiferi in pressione nel sottosuolo, generalmente sovrastati da materiale argilloso impermeabile: quando la pressione supera la resistenza del materiale soprastante, il mix di acqua e fango risale verso la superficie lungo zone di frattura. Fattore indispensabile per la formazione dei vulcani di fango è (come nel magma) la presenza di gas, senza il quale non si avrebbe la risalita fino alla superficie del mix a base di acqua. I vulcani di fango sono tipicamente associati a giacimenti di idrocarburi, per cui il gas dominante è metano oltre ad altri idrocarburi gassosi più pesanti (etano, propano, etc); tuttavia, alcuni di questi edifici possono emettere anche anidride carbonica. Come nei più classici vulcani magmatici, anche nei vulcani di fango si possono avere episodi di intense eruzioni, ed in qualche caso addirittura lo sviluppo di fiamme nel cratere a causa dell’autocombustione prodottasi durante la fuoruscita del metano. In generale, temperatura a parte, vulcani di fango e magmatici sono dinamicamente simili.
I vulcani di fango sono diffusi in varie zone della Terra: ad esempio in Azerbaijan se ne conoscono circa 300, alcuni dei quali possono raggiungere i 400 metri di altezza e lunghezza di alcuni chilometri. La maggioranza dei vulcani di fango si sviluppa su fondali marini, che ospitano anche gli edifici più alti conosciuti; ad esempio, quelli in vicinanza della Fossa delle Marianne superano i due chilometri di altezza . Di tali vulcani di fango ce ne sono tanti anche in Italia, sebbene di dimensioni molto più modeste (gli edifici conici sono generalmente alti fino a 3-4 m): sono vulcani di fango le salse emiliane, come quelle della Riserva Naturale Salse di Nirano a sud di Modena, e le maccalube siciliane, nell’omonima riserva naturale di Aragona, nell’Agrigentino. In Appennino Settentrionale tale fenomeno è presente in circa 15-20 località situate perlopiù nelle colline del margine padano, tra il pede-Appennino parmense a nordovest ed Imola a sudest. Nella zona del crinale appennino erano molto comuni emissioni di metano la cui combustione dava origine ai cosiddetti fuochi perenni: famosi erano quelli di Pietramala (come ad esempio il Fuoco del Legno) e aree limitrofe (tra i quali ad esempio il Vulcano del Peglio) studiati anche da Alessandro Volta. Tale fuochi sono praticamente scomparsi a seguito dell’estrazione di metano da piccoli impianti: gli unici “sopravvissuti” sono i cosidddetti fuochi di Portico lungo la valle del Montone in Alta Romagna.
Di recente uno di questi vulcanelli si è formato nel letto del torrente Enza, vicino Piazzano, in un’area dove manifestazioni dello stesso tipo erano (a detta degli abitanti della zona) conosciute già dagli anni ’40 dello scorso secolo. Nel caso specifico queste manifestazioni hanno carattere temporaneo, nel senso che appaiono e scompaiono per riapparire a distanza di anni nelle vicinanze della precedente. Questo “nuovo” vulcanello mugellano è largo appena qualche metro ed emette un mix di acqua e fango e gas che è stato recentemente oggetto di un campionamento da parte di esperti del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Firenze guidati dal Prof. Franco Tassi. Le prime analisi hanno mostrato come il gas intrappolato in piccole quantità nel mix acquoso sia metano, ma ulteriori e più approfonditi studi geochimici saranno necessari per capirne l’origine e quindi quali siano i meccanismi che hanno portato alla formazione del vulcanello.
Marco Bonini
Giacomo Corti
(Consiglio nazionale delle Ricerche, Istituto di Geoscienze e Georisorse – Firenze)
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 16 ottobre 2015