Il palazzuolese Massimo Galeotti torna a curare i malati di Ebola

Massimo Galeotti, operatore umanitario di Medici Senza Frontiere, in Liberia, nel Centro contro l’Ebola
Da undici anni il palazzuolese Massimo Galeotti svolge in modo speciale la sua professione di infermiere con “Medici Senza Frontiere”. E’ stato in Angola, poi in Liberia, tre volte in Sudan, per anni in Birmania, e poi in Bangladesh, e negli ultimi periodi in Sierra Leone, in Guinea e ancora in Liberia. Ma l’ultima esperienza è stata dura, in prima linea a combattere l’emergenza Ebola.
Ora è tornato a Palazzuolo, ma già si prepara a ripartire per la Sierra Leone,uno dei Paesi africani nei quali il terribile virus sta facendo più vittime: “Nei luoghi dove operiamo la morte la vivi tutti i giorni –dice-, ma stavolta, è stata dura. L’Ebola ti mette di fronte alla morte in modo ancor più atroce, perché i malati sono in isolamento, senza alcun contatto con il mondo esterno, e siamo noi operatori sanitari l’unico loro contatto con il mondo. Purtroppo ci troviamo a fronteggiare un numero impressionante di casi, e facciamo fatica a rispondere sempre ai loro bisogni. Ci mancano le risorse e il tempo di farlo. Per questo il livello di impotenza è molto alto”.
Galeotti, di recente, ha raccontato un episodio toccante di una bambina, Mary, che ha visto sterminata tutta la famiglie e malata pure lei, è riuscita, grazie alle cure dell’infermiere palazzuolese, a ricominciare a nutrirsi e alla fine a guarire.
“A causa dell’emergenza, anche numerica, -nota Galeotti- spesso l’aspetto psicologico viene troppo trascurato, ed invece è una parte importante. Mi ha colpito molto il ringraziamento che ho ricevuto da un paziente al momento del mio rientro in Italia. Sono andato a salutare le persone nel reparto, e un uomo mi ha ringraziato. Quando un malato entra in isolamento è come se fosse una sentenza di morte. E una morte solitaria. Lui fra l’altro proveniva da un’altra località, non conosceva nessuno. E peraltro i pazienti non si aiutano tra loro. Io con lui facevo lo spiritoso, gli facevo il solletico, mi fermavo a parlargli. E durante i saluti mi ha detto: “Grazie, perché non hai mai avuto paura di toccarmi”.
Certo, le precauzioni devono essere altissime. “Sì, anche noi abbiamo paura. Ma questo è anche un bene, perché ci fa stare sempre vigili, bisogna avere paura per fare le cose con coscienza, se ti rilassi rischi di fare una cavolata, abbassi la guardia e ti costa caro”.
Quanto al rischio di contagio, e ai timori che stanno diffondendosi in Europa e negli Stati Uniti, Galeotti qualche dubbio lo ha: “Certo, ci può stare, la gente si sposta e può contagiare. Noi stessi che lavoriamo a contatto con i malati, e poi torniamo a casa. Quindi ci può stare. Ma non so se i protocolli, in Occidente, per i casi accuditi da infermieri europei sono efficaci. Noi nei nostri centri curiamo centinaia di malati, e finora è stato riscontrato solo un caso di un’infermiera francese, che ha contratto il virus all’interno dell’isolamento. Invece vediamo che arriva un paziente in Spagna e c’è subito un caso di contagio. Forse questi protocolli andrebbero rivisti, e soprattutto presi seriamente. Noi abbiamo regole rigidissime, sia quando entriamo e ancor più quando usciamo dai reparti, con precauzioni di altissimo livello. Ci sono precise procedure per vestirsi e ancor più per togliersi questa sorta di scafandro, visto che siamo contaminati, e dobbiamo fare grande attenzione”.
Da quando è tornato in Italia Galeotti può dare un giudizio sul livello di informazione a proposito dell’Ebola: “Non direi che il fenomeno adesso sia sottostimato, adesso se ne parla molto. Magari ne avessero parlato prima, adesso la situazione non sarebbe così tragica”.
Perché l’epidemia ora sembra inarrestabile: “Tecnicamente fermarla si può –dice l’infermiere-. Vanno isolati tutti i casi positivi, interrompendo così il contagio e la trasmissione dal virus. Poi di ogni persona malati vanno controllati i contatti. Tutti i giorni occorre visitare le persone entrate in contatto col paziente, per vedere se sviluppano la malattia –il periodo di incubazione dura 21 giorni- e qualora li presentino vanno isolati a loro volta, con terapie mirata a migliorare le difese immunitarie, antibiotici, vitamine, sali minerali. Il problema è che parliamo dell’Africa, per ogni paziente sino almeno venti contatti e la gente si sposta moltissimo: il confine è un fiume, non ci sono frontiere, prendono una piroga e sono in un altro paese; la gente si sposta tantissimo e diventa difficilissimo rintracciare i contatti. Tra l’altro, capita di non poter avere accesso nei villaggi. Anche e per questo il conteggio delle vittime è sicuramente per difetto. Ci sono villaggi che non accettano gli aiuti, perché non credono che il virus esista, o pensano che siamo stati noi a diffonderlo in villaggi vicini,In passato, ora la situazione è migliorata la gente di quei villaggi che avevano deciso di chiudersi al mondo esterno, ci rincorreva con sassi e bastoni. Quindi è quasi impossibile fronteggiare ora l’epidemia, fosse stato fatto nel marzo scorso, quando Medici Senza Frontiere dichiarò lo stato di emergenza sarebbe diverso. Purtroppo la situazione è stata sottovalutata da tutti, tanto che finora siamo gli unici ad avere centri di isolamento per i pazienti. Emergency ha aperto un ospedale solo qualche settimana fa. Da parte nostra, miriamo a far venire in Africa altre organizzazioni per costruire altri centri di isolamento. Noi siamo ormai allo stremo, non abbiamo più risorse”.
Però l’equipe di Medici senza Frontiere continua a lavorare senza soste: Qual è lo stato d’animo dell’equipe, gli chiediamo? “Abbiamo molti alti e bassi. Quando arrivano tante persone malate, ci sentiamo avviliti perché sembra che questa malattia non abbia fine, temiamo di non farcela. Quando invece ne dimettiamo alcuni per noi è una festa. E’ una festa per tutti. Quando accade, capita che la famiglia organizzi concertini per accogliere i familiari guariti. All’inizio la mortalità del 90% ora si parla di mortalità di 60-70%. Si può guarire e si diventa immuni per quel tipo di Ebola e per un periodo limitato, sembra di un paio di anni. Ma ci sono cinque tipi di Ebola, quello di cui si parla ora è quello chiamato Zaire, il più aggressivo con mortalità più alta”.
Quella di Galeotti, dice lui stesso, è una vera vocazione: “Da piccolo sognavo di diventare infermiere. E ho sempre sentito l’esigenza di lavorare nei Paesi in via di sviluppo. Così contattai Medici senza Frontiere, ci siamo conosciuti, e non ci siamo più lasciati!”
E in famiglia, a Palazzuolo, che dicono di questa vocazione non priva di rischi? Galeotti sorride: “Sicuramente sono preoccupati, ma nello stesso tempo mi vedono felice e soddisfatto del mio lavoro. Sono contento, ho la loro benedizione!”
Per conoscere ed anche per sostenere la campagna di Medici Senza Frontiere STOP EBOLA: vedi il sito msf.it/ebola
© Il filo, Idee e notizie dal Mugello, ottobre 2014