INTERVENTI – No, Don Milani non era un prete di periferia
MUGELLO – In occasione di “Avrò Cura di Te”, l’evento fiorentino organizzato dal Pd sulle “battaglie di civiltà”, il capogruppo Pd in commissione affari sociali e membro della segreteria nazionale Marco Furfaro ha definito Don Milani “un prete di periferia”. Ed arriva a stretto giro la replica, personale, di Antonio Foti Valente, presidente dell’Istituzione Don Milani.
Un parlamentare toscano dello stesso partito progressista a cui sono iscritto anche io, oggi, ad un evento pubblico a Firenze, al teatro cantiere Florida, ha definito Don Milani “un prete di periferia”.
Spiace dover contraddire l’onorevole, ma no, Don Milani non era un prete di periferia. Aldilà di quanto male si attaglia il concetto di periferia al Mugello degli anni 50 e specie ad una frazione montana isolata da tutto, il tema è che questa dicitura non rende affatto giustizia all’opera dì don Milani e alla sua importanza sociale, politica, storica.
Non era nemmeno solo un bravo prete che amava i poverelli.
Era nato a Firenze nella classe dirigente da una delle famiglie più colte e influenti della città, parlava oltre 5 lingue. Differentemente, ad esempio, da Padre Balducci, figlio di minatori di santa Fiora.
Fu il radicalismo evangelico di Milani, la fermezza e il rigore che sentiva nei suoi doveri verso gli ultimi che portò quell’uomo di immane cultura e istruzione a mettere queste a disposizione dei figli dei pecorai e dei contadini e a dedicarci la vita.
Quei figli di pecorai e contadini che dopo averlo avuto come maestro viaggiarono per il mondo, diventarono cittadini capaci di orientarsi nel mondo e intellettuali consapevoli di un patrimonio di valori da difendere. Tra quei ragazzi, i due meno fortunati, orfani, furono quelli che don Milani ebbe più a cuore, uno diventò presidente della provincia di firenze, l’altro un grande riferimento del movimento del social forum e non solo.
Tutto questo per dire che la storia del priore di Barbiana offre rappresentazione massima di quel senso di responsabilità che chi nasce con i mezzi dovrebbe avere (se si crede nella Costituzione) verso chi nasce senza mezzi, cercando la propria realizzazione esistenziale nel mettere quei mezzi che solo per fortuna si erano ricevuti al servizio dell’emancipazione umana, della libertà di autodeterminazione della persona nella vita, nel lavoro, nella società, nella politica.
Quindi no, non era un prete di periferia, era un intellettuale figlio della classe dirigente che dedicò la sua vita a istruire i figlioli dei disgraziati perché fossero liberi, capissero meglio il mondo intorno a loro e diventassero meno disgraziati dei loro genitori, e visse in povertà per sentirli più vicini, per toccare le loro esistenze.
Si potrebbe dire che questo lo dovrebbe fare anche un grande partito progressista e di massa, per questo bisogna rimarcare quanto sia trasversalmente impietoso il confronto con l’oggi e con i tanti che arrivano a ricoprire funzioni dirigenziali nei partiti che avrebbero questo compito e che, invece, per convinzione, indifferenza, quieto vivere o semplice egoismo, finiscono per utilizzare i loro ruoli unicamente per un carrierismo tanto violento nelle pratiche, quanto scialbo nella sostanza.
Ma non vanno adorate le ceneri, ma conservato il fuoco, per questo invitiamo l’onorevole di cui sopra e i suoi colleghi dirigenti e parlamentari interessati a Don Milani e alla storia della scuola di Barbiana ad una conversazione vasta su come la pratica politica e la vita interna dei partiti oggi, anche di quelli progressisti, sia non solo lontana, ma spesso antitetica alla luminosa esperienza di emancipazione che fu Barbiana. Anzi, sono più le similitudini con chi esiliò il Priore a Barbiana, specie nel trattamento riservato ai presunti “disobbedienti”, che spesso sono i più devoti di tutti, ma i meno servili.
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 15 febbraio 2025