Assistere la vita e non il suicidio. Qualche riflessione sulla recente legge regionale
MUGELLO – “Una legge che sancisce il diritto alla morte non è certo un traguardo, ma una sconfitta per tutti. La priorità non può essere come si deve morire, ma proteggere la vita dall’origine sino al suo termine, e garantire a tutti fino alla fine un’esistenza dignitosa. La vita e non la morte è un bene, non si può essere convinti del contrario”: lo ha detto nei giorni scorsi l’Arcivescovo di Firenze mons. Gambelli, in riferimento alla recente approvazione, da parte del Consiglio regionale della Toscana della legge che per la prima volta in Italia consente e regolamenta il “suicidio assistito”.
Lo sappiamo bene: ormai anche l’eutanasia, ovvero dare la morte a un malato che la chiede, è divenuta o sta diventando, nella mentalità comune e maggioritaria, una “cosa giusta”. E sappiamo che il pensiero ormai espresso quasi soltanto dal mondo cattolico su questo tema è minoranza. Ma si tratta di una questione così importante che è giusto riflettere a fondo, senza tirarsi indietro davanti a un confronto culturale e ideale pur scomodo e impegnativo. E sarebbe triste e rischioso adeguarsi e tacere.
Una riflessione, quella sul suicidio assistito, che è anzitutto importante fare con pacatezza e perfino con tremore. Chi suona la tromba dell’esultanza per l’approvazione di questa legge, chi sventola la bandiera dei diritti, e chi parla di “forte messaggio di civiltà” dovrebbe ricordare che siamo su un terreno intriso di sofferenze, dubbi, difficoltà.
Su un tema come questo gli slogan suonano insopportabili. La parola d’ordine, per chi vuole consentire l’eutanasia, è “libertà di scelta”. Dobbiamo essere liberi di scegliere, ci viene ripetuto. Liberi fino alla fine. Ovvero fino alla morte.
Non è così semplice e lineare. Siamo davvero liberi quando si è preda della disperazione o della depressione? Avere la possibilità di “togliere il disturbo” non rischia di far prendere decisioni di morte ad anziani genitori incurabili, che si sentono un peso insopportabile per i propri figli e familiari?
Il soffrire e il morire sono momenti ineliminabili dell’esistenza. E vanno affrontati in un contesto di umanità, di solidarietà, di vicinanza. Contrastando la disperazione che viene dal sentirsi soli. Lo abbiamo sperimentato, di recente: una delle cose più terribili del Covid è stato, per tante persone, il morire in solitudine, lontani da chi ti vuol bene, senza una mano che stringe la tua, senza qualcuno che ti accarezza la testa.
E’ davvero progresso e civiltà uccidere l’incurabile, quello che non ha più speranza, o anche solo chi è disperato per paura?
Non si può uccidere per compassione. Può capitare, in situazioni particolari ed estreme, ma tutt’altra cosa è farla diventare la regola. La compassione è vita, non morte.
“Consolazione e conforto – ha sottolineato l’arcivescovo di Firenze – sono la considerazione che chiedono tanti malati, anche quelli terminali e i loro familiari. Alleviare solitudine e dolore delle persone che soffrono, migliorare l’accesso alle cure palliative e agli hospice, contrastando il senso di abbandono che conduce spesso alla disperazione, è segno vero di amore e cura, di rispetto del diritto alla vita”.
Nessuno nega che certe malattie portino a situazioni di dolore atroce. Certe sofferenze sono davvero durissime da accettare. Ed è qui che gioca un ruolo importante la medicina palliativa. Anche in Mugello abbiamo esperienze davvero belle, di medici e infermieri che in questo settore operano con grandissima umanità ed efficacia. Ormai stiamo capendo che l’accanimento terapeutico è un grave errore. E sappiamo che c’è un momento oltre il quale è inutile insistere. Ma il malato terminale va curato e accompagnato, non ucciso.
L’eutanasia uccide due volte. Toglie la vita al malato, ma impoverisce anche chi la compie, chi l’accetta, chi la favorisce. Proprio perché offre una “soluzione finale”, spegnendo nel cuore quella compassione che sarebbe necessaria e ci rende più umani. Quella compassione che è “patire insieme”, in modo solidale. E anche la sofferenza del proprio caro, pur nel dolore, fa crescere, forma, ti fa capire cose che prima non capivi. Questo passaggio della sofferenza e della morte si pretenderebbe invece di cancellarlo, di eliminarlo dai nostri occhi. Ma è una pretesa illusoria. E voler essere padroni assoluti della nostra vita e della nostra morte è altrettanto illusorio. E’ un altro passo verso una società sempre più individualista, sempre più formata da persone sole. Dove prevale la cultura dello “scarto”.
Già, anche questo è un aspetto importante, e stupisce che chi per formazione politica dice di essere dalla parte dei più deboli faccia fatica a comprenderlo. Quello del suicidio assistito, rischia di aprire a una deriva estremamente pericolosa nel considerare la vita umana solo in base alla sua efficienza, così che quando sembra non servire più possiamo scartarla. Sicuramente al servizio sanitario costa meno una fiala di veleno e il suo rapido somministrarla, rispetto a un’assistenza che può essere lunga e onerosa. In una società basata sul dio denaro, smettere di curare chi ha oltrepassato una certa età è tentazione già emersa più volte.
Ma ancor più siamo di fronte a visioni antropologiche profondamente differenti. Da una parte coloro che ritengono che la vita umana abbia un valore “in funzione” di quanto produce, di quanto è bella, di quanto è forte, di quanto vale “esser vissuta”, di quanto non sia di disturbo o di “peso” a nessuno. Dall’altro una visione che riconosce la ‘vita umana’ come valore assoluto in sé che nessuno si può permettere di interrompere e fermare.
Non si pensi che questa visione sia appannaggio esclusivo di chi ha fede. Il “non uccidere” riguarda tutti, è un concetto patrimonio dell’umanità, di credenti e non credenti. Anche perché oggi ripetere a noi stessi e insegnare ai giovani che il primo comandamento è “Non uccidere”, è quanto mai necessario. Altrimenti ci sarà sempre qualcuno che troverà, pur aberranti, le giustificazioni per togliere la vita al diverso, al disabile, a chi non la pensa come te e vedi come nemico, o consideri inferiore. Come fermeremo la mano del boia se iniziamo a fare distinzioni, e a consentire di spegnere una vita umana? E come potremo contestare la radice di ogni guerra? Oggi più che mai bisogna imparare invece a pensare che la vita umana è valore indisponibile. Solo questo è il baluardo per ogni tipo di violenza assassina, e il primo passo verso una società più giusta e umana.
Paolo Guidotti
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 16 febbraio 2025
Complimenti per l’articolo: scritto bene, comprensibile (spero anche a chi non vuol capire) e “punti fermi” indiscutibili. Grazie
Parole di sensibilità ma negareil diritto del proprio discernimento a volte è procrastinare la sofferenza in nome di una fede che non tutti hanno nello stesso modo.