“Povertà ma non tristezza”: l’esperienza di due giovani mugellane in Benin
MUGELLO – Come si fa a scrivere qualcosa sull’Africa? Come si fa a raccontare un mondo che ti avvolge con tutto il suo calore, la sua diversità, le sue peculiarità e le proprie contraddizioni? Per noi è impossibile esprimere a parole questa esperienza, non perché sia incomprensibile ma perché è talmente soggettiva e personale che soltanto se vissuta può essere percepita. Pur avendo vissuto entrambe le stesse cose, nello stesso momento, con le stesse persone, siamo state segnate in modi differenti.
Il nostro viaggio è iniziato il 15 gennaio 2017 dall’aeroporto di Bologna, dove, tra pianti, ansie, paure, ma anche tanta voglia di partire, abbiamo salutato i nostri cari, per la prima volta per tanto tempo (1 mese). Il viaggio è stato lungo, e faticoso: siamo arrivate a Cotonou, in Benin, la sera del giorno dopo. Scese dall’aereo, dopo il controllo dei passaporti, abbiamo scoperto che non erano arrivate le valigie: ecco la prima difficoltà, considerando anche il fatto che comunicare era per noi un problema, non conoscendo quasi per nulla il francese. Comunque, fatta la denuncia e uscite dall’aeroporto, siamo state travolte dal caldo beninese, dopo aver lasciato a casa la neve. Ad aspettarci, c’era don Marcel, con la sua tonaca bianca: che gioia! Dopo i saluti, siamo saliti in macchina e abbiamo immediatamente sperimentato il traffico e la guida spericolata beninese. Arrivati alla parrocchia, siamo subito state accolte calorosamente, nonostante i soliti problemi di lingua.
I primi giorni, oltre a doversi ambientare, abbiamo vissuto il disagio dovuto alla mancanza di alcuni comfort che avevamo in valigia: tuttavia, anche questo è stato edificante e ha contribuito a rendere l’esperienza indimenticabile. Alla fine però, il giovedì, sono arrivate le valigie, anche se ormai avevamo trovato la nostra dimensione. La domenica, siamo state presentate ufficialmente alla comunità, dopo la messa: eravamo una specie di attrazione che tutti volevano vedere con i propri occhi e con cui magari riuscire anche ad avere un contatto. Questa è stata un po’ la costante del nostro soggiorno: ricevevamo di continuo visite di persone che volevano conoscerci, vederci dal vivo, e quando andavamo in giro, venivamo salutate come delle star, soprattutto dai bambini. Questo anche per via della credenza che toccare l’uomo bianco porti fortuna. E di credenze, in Benin, ce ne sono moltissime, che convinvono tra di loro e con le religioni tradizionali, per fortuna in maniera pacifica. Ci sono tante sette, con una delle quali abbiamo avuto un rapporto diretto: una notte, ci siamo svegliate alle 1:30 di notte, a causa del suono dei tamburi, delle trombe e dei canti per celebrare i tre giorni di funerale, iniziati proprio quella notte: anche questo è stato un’esperienza.Se fuori eravamo considerate degli oggetti rari, quasi da ammirare, in casa eravamo due semplici ragazze italiane che facevano ridere per la loro incapacità di comunicare, se non a gesti. Probabilmente, è stato proprio questo a farci diventare una famiglia, senza che nemmeno ce ne accorgessimo. La famiglia beninese era composta da: Pére Marcel (il capofamiglia), Pére Lucien (lo zio della famiglia, nonché cappellano), Yves (il re della cucina, cioè il cuoco), Pascalin (il fratello maggiore, nonché segretario di don Marcel), Estelle (la sorella maggiore, nonché aiutante del don), Thierry (il piccolo di famiglia, ancora studente di liceo) e noi. Con loro, abbiamo sviluppato una sintonia tale che ci permetteva di capire e di farci capire, nonostante lo scoglio della lingua.
Oltre al tempo passato in parrocchia, abbiamo potuto visitare vari luoghi del Benin, che ci hanno fatto conoscere la cultura, le tradizioni, i modi di vivere e la cognizione del tempo (diciamo che vivono con calma). Senza scendere in particolari, per non rovinare la sorpresa a chi vorrà partire, possiamo dire che abbiamo scoperto un’Africa diversa da come ce la immaginavamo. Ci aspettavamo tanta povertà e quindi tristezza: la povertà c’è, ma la tristezza no, cosa che si sente subito, soprattutto perché le persone ritengono normale quel modo di vivere, anche se privo di cose per noi essenziali. Non che manchino le contraddizioni, dettate dalla loro cultura, ma quale paese non ce l’ha? Per questo, anche solo la presenza di stranieri è per loro fonte di gioia e ricchezza, non per forza materiale.Ad esempio, con un semplice pallone in strada, abbiamo passato tanti pomeriggi con bambini e ragazzi, senza bisogno di tanti discorsi.
Inutile dire che il mese è passato velocissimo e in un attimo ci siamo ritrovate al momento dei saluti: ancora una volta, ci sono stati fiumi di lacrime perché dovevamo lasciare un’altra famiglia e, questa volta, in maniera più definitiva. Sicuramente, abbiamo lasciato un pezzo di noi laggiù, ma quello che abbiamo portato a casa è molto più grande e tremendamente difficile da esprimere a parole: forse sono i sorrisi delle persone, le risate e la gioia dei ricordi o forse i colori della terra, delle vesti, il ritmo dei balli e dei canti che sono impressi nelle nostre menti e nei nostri cuori. Per capire davvero quello che abbiamo provato, sarebbe fondamentale che ognuno facesse un giro da quelle parti: sicuramente, non sarà la stessa nostra esperienza, ma certo sarà qualcosa di speciale.
A questo punto, non ci resta che ringraziare le persone che hanno reso possibile questo viaggio: in primis, le nostre famiglie che ci hanno permesso di partire e che sono state partecipi della nostra gioia, nonostante la lontananza e la conseguente paura. Allo stesso pari, don Marcel, che ci ha accolto come figlie e che è stato la nostra guida e il nostro punto di riferimento, nonostante i suoi numerosi impegni. Poi, la famiglia beninese, che resterà sempre nei nostri cuori e che ci ha fatto sentire meno la mancanza di casa. Vogliamo ricordare anche i confratelli di don Marcel, che hanno contribuito a farci sentire il Benin come una seconda casa.
Silvia Giampieri – Noemi Tafani
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 3 marzo 2017