di Massimo Biagioni
Il Primo maggio 2021 non dovrebbe essere un giorno come gli altri. Nemmeno con gli altri 1° maggio trascorsi negli anni pre pandemia. Tralascio quello dello scorso anno, aggrediti e segregati da un virus che ci ha modificato la vita e che azzerava ogni contatto sociale.
Pensare oggi alla festa, al corteo distanziato e a repliche improbabili di una non celebrazione, potrebbe consentirci una qualche riflessione.
Sul lavoro: sulla qualità, sulla quantità, sulle prospettive. Sui contratti: della triplice, dei sindacati “gialli”, delle categorie forti, dei raider, della agricoltura e le campagne di raccolta, financo delle cooperative, che a occhio, non sono tutte uguali. Sui lavoratori, pubblici e privati, di certi settore rispetto ad altri, della grande e piccola impresa.
E anche del mondo cambiato, di quello che non c’è più, la fabbrica che chiude, le tessere da distribuire, il proselitismo e le emozioni, i giornali da diffondere, il corteo con il comizio finale, prima del pranzo della festa. Con o senza concertone. Un rito rassicurante. Pieno di significato.
Quel mondo non c’è più e riproporre riassunti parrebbe fuori tempo. Il Sindacato dei lavoratori aveva iniziato col chiedere chiusure generalizzate. Sarebbe stata la festa del lavoro e dei lavoratori, in fondo. Una certa resistenza, una certa contestazione, l’affiorare di osservazioni che qualche ragione la potevano avere, ha consigliato il ripiegamento su una soluzione diversa, poi promulgata (almeno l’anticipazione è stata questa) dal Presidente della Giunta: chiusa la media e grande distribuzione, aperto il commercio e turismo delle piccole imprese.
Un compromesso che può contentare tutti e scontentare tutti che è la stessa cosa. Ma bisogna farsi delle domande.
Il Primo maggio 2021 dopo 110-120 giorni di chiusura delle attività in un anno, la ulteriore chiusura sarebbe stata una scelta saggia? La celebrazione del rito e la riaffermazione di un principio come si collocherebbe nel mondo cambiato? Sarebbe intelligente una giornata festiva col colore giallo, tenere chiusa la passeggiata di Viareggio piuttosto che forte dei Marmi o Orbetello (esempi a caso) e non consentire (in sicurezza, per carità, ché i più interessati ad esserlo sono gli imprenditori) di poter vendere una maglia, un regalo, un paio di scarpe?
È paradossale pensare che la miglior tutela per il lavoro in questo anno pandemico sia aprire? E lottare per tenere aperto la bottega, l’impresa, i dipendenti (quei pochi, certo, ma trattati forse meglio che altrove) e salvare la gestione?
Del resto se alziamo lo sguardo tutto è cambiato, nelle città negozi sempre aperti, grande distribuzione aperta ogni domenica e soprattutto tutte le festività, orari prolungati (non per evitare assembramenti in pandemia, come sarebbe stato logico, per diluire i clienti) fino a tardi; con la presenza di una cascata di centri commerciali, grandi strutture, grandi superfici, che peraltro hanno svuotato i centri storici (una pre-pandemia, potremmo dire).
Il modello è cambiato.
E nel mezzo a questo l’esplosione di un’offerta enorme, di una concorrenza esasperata che alla lunga si è riverberata su uno degli elementi del costo: il personale. E su quello è cominciata ogni tipo di limatura, ottimizzazione, turni, orari articolati eccetera. E torniamo al lavoro e ai lavoratori.
Bene. I commercianti e la piccola e media impresa non hanno nessuna responsabilità di questa trasformazione, anzi, accusati di conservatorismo e di rendita di posizione abbiamo combattuto con tutte le nostre forze per città e paesi a misura di uomo, di tenere aperte le luci, di preservare le relazioni sociali, di privilegiare il commercio di vicinato. Pagando decine di miglia di posti di lavoro in meno, sacrificati sull’altare del moderno e delle scatole di cemento in periferia. Posti, che tirando la riga del saldo, sono in rosso, e non di poco.
I commercianti (includendo tutte le imprese inerenti) allora hanno cercato di stare sul mercato: e spesso l’apertura domenicale, vissuta come un fattore negativo, diventa vitale per difendere una piccola quota di consumo. Per vivere e guadagnare e non arrendersi.
Chi ha voluto questa cascata di grande distribuzione, con decine di grandi strutture anche nella nostra zona, per dire, non può sfuggire a un esame di coscienza sulle scelte e sulle conseguenze.
Il prossimo Primo maggio bisognerebbe, insieme, poter proporre qualcosa che cominci a correggere l’andazzo. Siamo o non siamo nel green e nella transizione ecologica?
©️ Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 30 aprile 2021