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A servizio della comunità. Intervista al diacono Luca Gentili

Posted On 21 Gen 2019
By : Redaz
Comment: 0
Tag: chiesa, parrocchia, Vespignano, vicchio

VICCHIO – Pochi giorni fa Luca Gentili, di Vicchio, è stato ordinato, in Cattedrale a Firenze, Diacono permanente. Una funzione e un servizio che non tutti conoscono. Per questo lo abbiamo intervistato. Ecco le sue risposte.

Intanto, quali sono le funzioni di “diacono permanente”? Chi è il “diacono”? Prima delle funzioni è importante tratteggiare qualcosa su chi sia il diacono, o meglio, a quale vocazione sia stato chiamato quel diacono. Sicuramente possiamo usare le parole che Papa Francesco ha usato: “Voi siete i custodi del servizio nella Chiesa.”; oppure quanto dichiara il rito dell’ordinazione: “immagine di Cristo «che non venne per essere servito ma per servire»”. Il sacramento dell’ordine è quindi dato al diacono perché possa essere dono alla comunità, in mezzo ai fratelli, presenza dell’amore misericordioso di Dio.

Come il nostro Arcivescovo ha ricordato proprio in occasione dell’omelia della Messa domenica scorsa: “L’angoscia che domina le coscienze e la disillusione con cui si guarda al futuro nella nostra società invocano un supplemento di speranza, che solo parole di verità e gesti di carità possono nutrire, parole e gesti che costituiscono la via da preparare perché ciascuno possa essere raggiunto dalla presenza salvifica del Signore.” Questi parole e gesti sono quelli della chiesa nella liturgia (soprattutto nella Messa), nella Parola vissuta e annunciata, nella Carità (l’amore misericordioso di Dio) vissuta con i fratelli, specialmente quelli più bisognosi. Solo sotto questa luce il ministero del diacono si può comprendere quando svolge le sue “funzioni”: battezzare, benedire le nozze, celebrare le esequie, compiere i gesti suoi propri durante la messa, dare la comunione, sono grazia di Dio che si comunica attraverso il ministro, che però è forse bene vedere come un fratello al servizio dei fratelli, piuttosto che come un funzionario di “cose sacre”.

 

Non è un “sostituto” del sacerdote, vista la carenza di vocazioni? No. Piuttosto è il segno del cambiamento d’epoca che la chiesa è chiamata a vivere nel mondo. È vero che alcuni ministeri sono comuni ai tre gradi dell’ordine, ma il carisma peculiare di ognuno rimane distinto.

Il diaconato stesso poi è una vocazione, per dirla con l’arcivescovo di Milano, Delpini, “di una persona che deve trovarsi a suo agio nell’offrire la sua testimonianza negli ambiti ordinari della vita quotidiana, cioè la sua famiglia e il suo ambito professionale, e insieme deve trovarsi a suo agio nel servire in modo qualificato la celebrazione liturgica”. Pur facendo parte del clero, vive i ritmi e i problemi di un laico. Sul piano della “quantità” dei servizi pastorali, oggi non è paragonabile a un prete che è pastoralmente impegnato tutta la giornata: il diacono ha spesso moglie, figli, un lavoro col quale contribuire a mantenere la famiglia. Il diacono così può essere impegnato a portare ciò che è profano e buono all’altare perché sia santificato, ed ad aiutare i fedeli a portare nella vita quotidiana, con tutti i suoi limiti, quella santità a cui sono chiamati a prendere parte nella Messa: possiamo dire che può essere un catalizzatore della vita comunitaria, rendendola più dinamica e armonica. In queste cose il diacono è aiuto e complemento ai presbiteri nel servizio alla comunità, non li sostituisce.

Cosa ti ha fatto nascere nel cuore questa scelta? La mia scelta è stata quella di dire “sì” al Signore da quando ho ricevuto la cresima a 18 anni. Poi ancora quando con Barbara ci siamo uniti nel sacramento del matrimonio, quindi dopo la nascita del terzo figlio, la gratitudine per l’amore che Dio ci dava ancora traboccava… mentre vedevo le persone in chiesa con un grande bisogno di sentirsi amate, rassicurate, di riconoscere la grandezza dei talenti che hanno ricevuto e che rischiano di tenere sotterrati per paura o distrazione. Pregavo che il Signore mandasse pastori, poi mi sono sentito interpellato a condividere la bellezza che vivevo. In quasi sette anni di cammino ho cercato continuamente di capire se fosse un mio obiettivo o una reale chiamata, ma tutte le volte il discernimento andava confermando la seconda ipotesi.

Per me è una esperienza piena di stupore: io sono caratterialmente un po’ “orso”, non amo la folla e sto bene anche da solo, così sono ancora a chiedermi perché il Signore mi abbia chiamato a farmi dono a tanta gente: spero allora di non fare danni e mi consola che sia Lui a ordire il nostro ricamo.

Devo ricordare anche tre preti che sento essere stati fondamentali per il mio discernimento: padre Riccardo Grassi, che mi ha insegnato a “rizzare le orecchie” nell’ascolto del Signore e a confidare in lui; don Antonio Cigna che è il fratello che mi ha accompagnato più da vicino, insegnandomi ad amare la chiesa nonostante tutti i suoi difetti; don Giuliano Landini, il fratello esempio di forza e dedizione, che mi ha lanciato la “provocazione” del diaconato permanente, anche se devo riconoscere nel diacono Giuliano Graziani il primo che mi ha proposto l’idea, per anni respinta, di una mia vocazione diaconale.

E’ una scelta che coinvolge anche la famiglia. Che ha detto tua moglie? Un uomo coniugato non diventa diacono nonostante sia sposato, ma perché è sposato! La dimensione nuziale è premessa essenziale di quella vocazione e quindi il discernimento vocazionale di un una persona sposata va fatta necessariamente insieme al coniuge. L’assenso della moglie è vincolante per il vescovo già al momento della candidatura al diaconato, non si può ordinare un uomo che non abbia il sostegno della sposa in questo cammino, ma questo è ancora troppo poco per spiegare quello che avviene per la coppia. Il sacramento dell’ordine sacro viene ad “innestarsi” su uno maturato prima, quello del matrimonio, che già proietta gli sposi in una dimensione di dono reciproco, di servizio alla vita e alla Chiesa. Non è neppure pensabile che nella vita i due sacramenti sussistano in maniera indipendente l’uno dall’altro ma ciascuno porta all’altro i suoi tratti distintivi.

Al principio del cammino in Barbara c’è stata l’attenzione del discernimento, poi la sofferenza fra la certezza di una mia vocazione e il timore per il modo in cui la vita coniugale sarebbe cambiata. A questo punto siamo consapevoli che la chiamata non è solo per colui che riceve l’ordinazione, ma per la coppia intera e coinvolge tutta la famiglia. La sposa non è né variabile indipendente, né semplice sostegno al marito ma forma il modo d’essere dell’uomo ordinato. Personalmente penso che spiritualmente si possa parlare di uno stato di “coppia diaconale”, perché nella distinzione delle persone l’unica carne degli sposi è investita dall’arrivo del sacramento conferito al marito.

Operativamente cosa fa il diacono Luca Gentili? Per il momento, più di tutto ascolta e impara. E intesse relazioni. Se la mia esperienza degli ultimi quindici anni ha visto me e mia moglie in qualche modo impegnati nella pastorale familiare e nella catechesi ed è su quel fronte che mi sento e ci sentiamo un po’ più preparati, tempo addietro mi sono occupato di pastorale giovanile, in cui invece ora dà un contributo Barbara. Durante il tempo del mio accolitato nella mia comunità di Vespignano ho potuto curare e rendermi conto della bellezza e della ricchezza della nostra liturgia, che bisogna davvero vivere tutti insieme nel suo valore pastorale e nella sua sacralità. Siccome un diacono poi è custode del servizio nella carità, comprensibilmente mi è stato chiesto di occuparmi della cura pastorale della Caritas parrocchiale, campo in cui però non ho alcuna esperienza e nel quale pertanto dovrò muovermi con particolare prudenza. Non so quanto potrà essere “efficiente” quello che faccio o facciamo, ma mi pare che l’opera più urgente sia la conversione del cuore al Cristo, a cominciare dal mio, e prego perché il Signore possa fare di me e di noi secondo la sua volontà. Forse è ingenuo ma a 51 anni, nella vita più che del fare cose sento il desiderio di essere servo e amico di Cristo e della sua chiesa, di aiutare i cuori a gustare la gioia dell’amore e della fede. Le cose che bisogna fare sono la materia con la quale impastare quel desiderio per renderlo vita concreta, in forme spesso imprevedibili.

 

In Mugello ci sono altri diaconi? Pochi? Tanti? In Mugello oggi ci sono 5 diaconi: Romano Biancalani a Fagna, Roberto Berti a Vaglia, Giuliano Graziani a Luco, Marco Cirri a Barberino ed io a Vicchio. All’inizio del 2016 ci ha lasciato il nostro Andrea Salvadori, l’ho conosciuto troppo poco e sento molto la sua mancanza, per me era un riferimento e uno stimolo importante.

I diaconi sono ancora pochi, ce ne vorrebbe almeno uno per unità pastorale! Desideri a parte, proprio perché le loro peculiarità sono diverse e la loro esperienza e formazione non sono omogenee come quelle dei presbiteri, la loro opera pastorale può assumere espressioni assai varie ed è comunque preziosa nel nostro territorio anche se rimane di basso profilo.

Dire “ci manca un diacono” è molto più difficile che dire “ci manca il prete”, perché molte delle funzioni tipiche di un diacono in una parrocchia possono essere supplite da un sacerdote (che, ricordiamolo, è stato ordinato diacono prima di passare al presbiterato) ma non è possibile il contrario per la Messa, la Confessione, l’Unzione degli infermi.

Il diacono si muove in funzione di quella relazione e in aiuto al prete: l’assenza di diaconi spesso non si avverte se non se ne è avuta l’esperienza e può risultare una occasione persa nel delineare quella chiesa tutta ministeriale auspicata dal Concilio. Fuori da questa logica il diacono rischia di esser percepito come un prete incompiuto, o come un super-sagrestano. La sua mancanza si può sentire più facilmente dove c’è stato un cambio del parroco. Un diacono che abbia famiglia è molto più “stanziale” di un prete e se non ha particolari incarichi diocesani è spesso legato ai luoghi di origine, per questo la sua presenza discreta, se ascoltata, può rendere molto meno “traumatica” per le comunità l’eventuale transizione o un riordino pastorale.

Un diacono fa parte in modo speciale della comunità ecclesiale. Posso chiederti un giudizio sullo stato di salute della chiesa mugellana? Quali le sue caratteristiche? Quali le difficoltà e i limiti da superare? Non conosco lo stato di salute di tutta la Chiesa mugellana, almeno non in modo approfondito.

Il Mugello vede ancora comunità piuttosto coese in cui spesso l’identità civile e culturale si mescola con un sentimento religioso diffuso. Ciò che è troppo poco diffuso è quell’attaccamento all’Eucaristia e alla Parola che per un cristiano sono vitali. A volte ci si accosta ai sacramenti come a un servizio fornito dalla Chiesa, percepita come una istituzione fra le altre o un’occasione di socializzazione come altre. È un male, l’unità di una comunità trova la sua fonte vitale proprio nell’Eucaristia e allontanarsene indebolisce noi e le nostre relazioni. Ma da noi forse stiamo messi meglio che in tante città toscane.

Mi rendo conto che un territorio esteso come il nostro, con la popolazione distribuita in tante frazioni fra loro distanti, subisce in modo particolare la diminuzione del numero di presbiteri. Questo provoca una serie di conseguenze dolorose: dalla diminuzione delle messe domenicali, alla difficoltà a mantenere vive tante belle espressioni della pietà popolare, alla semplice e urgente prossimità pastorale. Proprio due giorni fa ho ascoltato il rammarico che una signora, nella cui parrocchia non vive più il prete, aveva nel non trovare ancora occasioni di confronto: non è magari il “servizio” della Messa a mancare (e quanto bisogna essere grati ai presbiteri per l’attenzione e l’energia profuse per celebrarla nelle piccole parrocchie!), ma quella occasione di ascolto quotidiano che la fa scoprire necessaria, quella prossimità del sacro alla vita quotidiana che fa alzare lo sguardo verso il Signore con speranza autentica. È facile lamentare che i cristiani sono meno fedeli di un tempo ma le famiglie sono le prime ad essere colpite da lupi rapaci quando i pastori da soli non riescono a proteggerle tutte. Credo che la prossimità, l’accompagnamento sia fra le più importanti dimensioni da recuperare ma non è pensabile che ci si aspetti solo dal clero, ormai, questa capacità missionaria.

Intervista di Paolo Guidotti

© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 21 gennaio 2019

 

 

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