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RIFLESSIONI SUL VANGELO DELLA DOMENICA – Facciamo un po’ di silenzio dentro e intorno a noi?
VAGLIA – I sacerdoti del Vicariato del Mugello, a turno, propongono una riflessione tratta dalle letture della Messa domenicale. Oggi è la volta di padre Maurizio Gabellini, del Convento di Monte Senario.
Il Vangelo odierno inizia con queste parole:
“In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto ed egli vi rimase quaranta giorni, tentato da Satana”.
Il testo di Marco è discreto, scarno: non dice in cosa consista la tentazione. Qui abbiamo il silenzio per restare in sé stesso, per abitare il proprio spirito e non dissiparsi all’esterno con parole, per restare concentrato. Silenzio per scoprire che il mondo è in noi, non banalmente fuori di noi. Qui si situa anche la potenza della solitudine. La lotta del deserto è anzitutto in questo abitare solitudine e silenzio. Che normalmente sono dimensioni rare, a cui non siamo abituati e a cui cerchiamo di sottrarci. Inoltre, il potere semplificante ed essenzializzante di solitudine e silenzio fa emergere i lati più oscuri e tenebrosi che sono in noi. Ma proprio lì si situa il lavoro di verità che queste dimensioni operano per noi. Che non sono il fine cui giungere, ma la strada da percorrere per arrivare al fine dell’incontro con il Signore e dello stare con lui, al fine dell’incontrare gli altri in verità e carità.
Gesù ha appena ricevuto, nel Giordano, l’investitura messianica per portare la buona novella ai poveri, sanare i cuori affranti, predicare il Regno. Ma non si affretta a fare nessuna di queste cose. Al contrario, obbedendo a un impulso dello Spirito Santo, si ritira nel deserto dove rimane quaranta giorni, digiunando, pregando, meditando, lottando. Tutto questo in profonda solitudine e silenzio.
Nella storia vi sono state schiere di uomini e donne che hanno scelto di imitare questo Gesù che si ritira nel deserto. In oriente, a cominciare da sant’Antonio Abate, si ritiravano nei deserti dell’Egitto o della Palestina; in occidente, dove non esistevano deserti di sabbia, si ritiravano in luoghi solitari, monti e valli remote. Tutto iniziò con san Benedetto da Norcia che fece di Subiaco il primo degli innumerevoli eremi e monasteri che avrebbero punteggiato il nostro continente, contribuendo in modo decisivo al suo sviluppo culturale e agricolo con il noto programma ora et labora, prega e lavora, tanto da essere proclamato Patrono dell’Europa.
Ma l’invito a seguire Gesù nel deserto non è rivolto solo ai monaci e agli eremiti. In forma diversa, esso è rivolto a tutti. I monaci e gli eremiti hanno scelto uno spazio di deserto, noi dobbiamo scegliere almeno un tempo di deserto. Trascorrere un tempo di deserto significa fare un po’ di vuoto e di silenzio intorno a noi, ritrovare la via del nostro cuore, sottrarci al chiasso e alle sollecitazioni esterne, per entrare in contatto con le sorgenti più profonde del nostro essere.
La Quaresima è l’occasione che la Chiesa offre a tutti, indistintamente, per fare un tempo di deserto nell’ambiente stesso in cui vivono, senza bisogno di ritirarsi in un eremo. Vissuta bene, essa è una specie di cura di disintossicazione dell’anima. Non c’è infatti sulla terra solo l’intossicazione da ossido di carbonio; esiste anche l’intossicazione per eccesso, di rumori e di luci. Siamo un po’ tutti ubriachi di chiasso. Non sono solo i credenti a sentire il bisogno di tempi di raccoglimento e di solitudine, ma ogni persona consapevole di avere uno spirito, un’anima, o almeno una libertà, da custodire e difendere. Anche lo spirito ha diritto alle sue ferie!
L’uomo invia le sue sonde fino alla periferia del sistema solare, ma ignora, il più delle volte, quello che c’è nel suo stesso cuore. Evadere, distrarsi, divertirsi: sono tutte parole che indicano un uscire da sé stessi, un sottrarsi alla realtà. Esistono spettacoli «di evasione» (la TV ce ne propina a valanga), letteratura «di evasione». In inglese, tutto questo genere è chiamato, significativamente, fiction, finzione. Preferiamo vivere nella finzione, anziché nella realtà.
I giovani sono i più esposti a questa ubriacatura di chiasso. “Pesi il lavoro su questi uomini – diceva degli ebrei il faraone ai suoi ministri -e siano tenuti impegnati, così che non diano retta alle parole di Mosè e non pensino a sottrarsi alla schiavitù» (cfr. Esodo 5,9). I «faraoni» di oggi dicono, in modo tacito, ma non meno perentorio: “Pesi il chiasso su questi giovani, ne siano storditi, cosi che non pensino, non decidano per conto loro, ma seguano la moda, comprino quello che vogliamo noi, consumino i prodotti che diciamo noi”.
Che fare? Non potendo andare noi nel deserto, bisogna fare un po’ di deserto dentro di noi. Come? La tradizione cristiana ci offre la risposta con una parola: digiuno. Solo che esistono molti tipi di digiuno. Una volta, con la parola digiuno, si intendeva solo il limitarsi nei cibi e l’astenersi dalle carni. Questo digiuno alimentare conserva tuttora la sua validità ed è altamente raccomandato, quando è fatto con spirito di sacrificio, per mortificare la gola e avere qualcosa di più da condividere con chi muore di fame.
Tuttavia, questo non è oggi il digiuno più necessario. Più necessario del digiuno dai cibi è il digiuno dai rumori, dal chiasso e soprattutto dalle immagini. Viviamo in una civiltà dell’immagine; siamo diventati divoratori di immagini. Attraverso la televisione, la stampa, la realtà stessa, lasciamo entrare a fiotti immagini dentro di noi. Molte di esse sono malsane, veicolano violenza e malizia, non fanno che aizzare i peggiori istinti che ci portiamo dentro. Sono confezionate espressamente per sedurre. Ma forse il peggio è che danno un’idea falsa e irreale della vita, con tutte le conseguenze che ne derivano nell’impatto poi con la realtà. Si pretende che la vita offra tutto ciò che la pubblicità presenta.
Se non creiamo un filtro, uno sbarramento, riduciamo in breve tempo la nostra fantasia e la nostra anima a un immondezzaio. Le immagini cattive non muoiono appena giunte dentro di noi, ma fermentano. Si trasformano in impulsi all’imitazione, condizionano terribilmente la nostra libertà. Sappiamo cosa questo significa, specie per gli adolescenti e i giovani.
Un altro di questi digiuni alternativi, che possiamo fare durante la Quaresima, è quello dalle parole cattive. San Paolo raccomanda: “Nessuna parola cattiva esca più dalla vostra bocca, ma piuttosto parole buone che possano servire per la necessaria edificazione, giovando a quelli che ascoltano”. (Efesini 4, 29).
Parole cattive non sono solo le parolacce; sono anche le parole taglienti, negative, the mettono in luce sistematicamente il lato debole del fratello, parole di critica, di sarcasmo. Nella vita di una famiglia o di una comunità, queste parole hanno il potere di far chiudere ognuno in sé stesso, di raggelare, creando amarezza e risentimento. Alla lettera, “mortificano”, cioè danno la morte. San Giacomo diceva che la lingua è piena di veleno mortale; con essa possiamo benedire Dio o maledirlo, risuscitare un fratello ucciderlo. Una parola può fare più male di uno schiaffo o di un pugno.
Non potendo andare noi nel deserto, l’alternativa è fare un po’ di deserto intorno a noi.
Che lo Spirito che «condusse Gesù nel deserto», vi conduca anche noi, ci assista nella lotta contro il male e ci prepari a celebrare la Pasqua rinnovati nello spirito!
P. Maurizio Gabellini OSM
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 17 Febbraio 2024
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