Un ricordo di Gian Paolo Speroni
BORGO SAN LORENZO – Gian Paolo Speroni era docente di Chimica Generale e Inorganica all’Università degli Studi di Firenze, e viveva a Scarperia. E’ morto ieri, e il funerale si tiene oggi, sabato 22 gennaio, a Scarperia.
Era una persona straordinaria, e ci sembra doveroso ricordarne la figura. Noi abbiamo avuto modo di conoscerlo, ormai diversi anni fa, perché veniva nel nostro studio per farci pubblicare libri di storie su personaggi di Scarperia e libri per bambini.
Abbiamo ritrovato ora una sua nota, su internet, una sorta di autobiografia, che mostra bene l’indole di Gian Paolo, la sua umanità, la sua impostazione di docente serio e preparato. La pubblichiamo qui, per ricordarlo e salutarlo.
Francesco e Francesca Noferini
Once upon a time and then? Another story
Ho sentito la necessità di scrivere queste righe per una domanda che mi è stata fatta e una strana coincidenza che si è verificata.
Alcuni giorni fa ho telefonato a un simpatico e molto bravo medico dell’Ospedale di Borgo San Lorenzo, il dottor Marco Lombardi, del quale sono un paziente, e mi sono accorto che quella mattina era piuttosto arrabbiato a causa della caotica situazione in cui si trovava, che non gli permetteva di lavorare come avrebbe voluto.
Sosteneva di essere stressato e talvolta amareggiato per la complessità attuale del lavoro di specialista, per la burocrazia imperante e per l’organizzazione non ottimale.
Al termine della chiacchierata mi ha chiesto se, ai miei tempi, anche a Chimica ci fosse questa situazione. Lo stesso giorno, sul quotidiano “La Nazione” di Firenze, ho trovato un articolo del giornalista M. Brambilla, intitolato “Se ora l’asino va alla lavagna”, in cui si stigmatizzava la poca cultura degli italiani e soprattutto di quelle persone che occupano posti di prestigio e responsabilità ai quali è affidato il bene della Nazione.
Io sono un ex docente di Chimica Generale e Inorganica dell’Università di Firenze, ormai in pensione da diversi anni, che ha iniziato la carriera scolastica nel 1941 e che ha terminato con la laurea in Chimica nel 1960.
Ho dovuto ripetere la terza media a causa di un’infezione polmonare che mi ha tolto dalla scuola, ma mi ha mandato a divertirmi in Val di Fassa per tre mesi.
I primi anni delle elementari sono stati un po’ tormentati a causa delle nefandezze della guerra, ma hanno svegliato anzitempo le capacità conoscitive di noi ragazzi e ci siamo potuti rendere conto, da subito, delle grandi difficoltà in cui si trovavano i nostri genitori e, dai loro discorsi, di tutte le persone preposte a obblighi di grande importanza.
Eravamo cresciuti in fretta, ma non tanto da non farci giocare. Ci divertivamo con povere cose sostituendo i giocattoli belli e costosi con l’aiuto di una grande fantasia, andavamo volentieri anche a scuola, perché si poteva stare in compagnia dei nostri coetanei e io ho avuto la fortuna di trovare dei maestri che ci facevano divertire e che erano, al contempo, dei fenomeni per la semplicità con cui riuscivano a essere non solo insegnanti, ma veri e propri maestri di vita.
Nel ventennio fascista, a parte le varie defaillance, la scuola era tenuta in grande considerazione e lo stesso valeva per la disciplina, l’ordine, la puntualità e l’educazione, non facendo mancare quei soldi che servivano per poter avere i testi gratuitamente e, in alcuni casi, per i ragazzi meno abbienti, anche tutto ciò che riguardava la cancelleria.
Dopo aver ottenuto la laurea, sono stato sei mesi all’università di Monaco di Baviera con una borsa di studio, ho fatto diciotto mesi di servizio militare e ho iniziato la carriera universitaria nel 1963.
Durante il corso di laurea, il soggiorno in Germania e la cosiddetta “naia”, mi sono potuto rendere conto che, se non si studia, non si osserva la disciplina, non ci si impone un certo ordine e non si cerca di emulare coloro che ne sanno più di noi e di parlarci, non si va da nessuna parte.
Negli anni subito dopo la fine della guerra, in Italia abbiamo avuto dei buoni governi, c’erano politici di tutto rispetto e i manager industriali, oltre a essere creativi, erano onesti; le Università e la salute pubblica potevano contare su grandi eccellenze e, come conseguenza di tutto ciò, si poteva tranquillamente dire che, tutto sommato, si stava abbastanza bene, grazie anche agli aiuti del piano E.R.P., e che le cose avevano cominciato ad andare per il verso giusto.
C’è stato poi il terremoto degli anni ’70 e ’80 e in tutti i Paesi cosiddetti “democratici” si è ricominciato, piano piano, a perdere quelle illusioni che ci eravamo fatti, fino ad arrivare all’attuale situazione.
In questo periodo, ai cittadini onesti, agli altri no per motivi diversi, cominciarono a scivolar via dalle mani tutti quei soldi con la stessa velocità con la quale erano arrivati negli anni del cosiddetto “boom economico”.
Ora, specialmente in Italia, sia la scuola che la sanità sono le cenerentole per gli investimenti pubblici.
Se occorre fare dei tagli per far quadrare qualche bilancio, a farne le spese sono sempre la scuola, la sanità e la pubblica sicurezza, che, invece, secondo il desiderio di tutti, tranne che del nostro emerito Parlamento, dovrebbero essere considerate esigenze primarie.
La colpa, del resto, è anche nostra, perché partiti e Ministri li abbiamo votati e anche eletti.
Per rispondere alla domanda del Dottor Lombardi, ai miei tempi il mondo “scuola-università” girava meglio e questo era dovuto al fatto che c’erano un maggior senso del dovere, una sufficiente onestà, conoscenze ad alti livelli del lavoro assegnato e migliori condizioni economiche. Tutto ciò, comunque, in ogni campo del lavoro.
Sono sempre stato convinto, per l’esempio dei miei maestri e soprattutto dei miei genitori, che una persona che svolga un lavoro di una certa importanza debba attenersi sempre a delle regole dalle quali non si può mai derogare.
L’insegnante ha l’obbligo di essere educato e rispettoso, di avere un buon comportamento anche nel vestirsi e, soprattutto, di essere ben cosciente del proprio sapere.
Non ci si può presentare dietro una cattedra, di fronte a un certo numero di studenti con un fare dimesso e disordinato, non si possono raccontare “farfanterie” (come diceva Andrea Camilleri), perché i primi ad accorgersi che non sai un accidente sono proprio gli alunni.
È indispensabile che un insegnante conosca bene i suoi allievi e si deve poter rendere conto se ci sono, in ognuno di essi, problemi di apprendimento, personali, familiari e, talvolta, anche di droga.
Deve intervenire il più direttamente possibile, parlare con ciascuno privatamente, sviscerare al meglio il problema e, nel rispetto della riservatezza, spiegare, consigliare e indirizzare.
È ovvio che l’altra cosa fondamentale da osservare è lo svolgimento della lezione in aula.
In quarant’anni di insegnamento (ogni settimana tre giorni di lezione di un’ora e due turni di laboratorio di cinque ore), non c’è mai stata una serata della vigilia dei miei impegni in cui non abbia passato diverso tempo per preparare tutto nei minimi particolari. Facevo una scaletta degli argomenti da trattare, intervallandoli con esempi, connessioni con fenomeni naturali e parallelismi con altri concetti, tenendo presenti anche i tempi (cosa fondamentale).
Dopo mezz’ora di lezione, ci si può accorgere facilmente che l’attenzione degli studenti diminuisce drasticamente e, allora, bisogna inventare qualcosa che esuli dagli argomenti trattati: un aneddoto, un fatto strano letto sul giornale, una barzelletta, insomma qualcosa che risvegli l’assemblea. Il risveglio può durare ancora una ventina di minuti e, poi, le cose che si dicono e che si cerca di spiegare sono solo e soltanto parole al vento.
Ho scritto questa breve specie di autobiografia non per dire che soltanto io ero bravo, ma perché tutti i miei colleghi della Facoltà di Scienze, indistintamente, si comportavano nello stesso identico modo. Era una vita un tantino sacrificata, ma qual è quel mestiere o quell’impegno (leggi, per esempio, lo studio) che, se deve essere fatto bene, non comporta sacrificio?
Ora alcuni insegnanti, medici, giuristi, e tecnici in generale si comportano come se fossero degli automi programmati, per fare solo e soltanto quelle cose dettate da ben determinate Linee Guida o da sofisticatissime apparecchiature.
Tutto ciò che ho cercato di dire penso valga anche nella professione del medico. Il vero professionista, anche se esperto in medicina, non dovrebbe dare a un paziente un farmaco o consigliare una terapia solo perché una “macchina” gli ha detto che un parametro delle sue analisi è sballato, ma dovrebbe parlarci, conoscendo bene la sua anamnesi, per sapere di lui qualcosa di più, come la vita che fa, la professione che esercita, la cultura e la famiglia in cui vive, tutte cose che contribuiscono a rendere più evidente il punto debole della malattia.
Un medico specialista credo non debba essere ferrato solo nella sua specifica materia, ma essere informato o, eventualmente, chiedere pareri ai colleghi sulle patologie collaterali del paziente.
In ogni campo, comunque, affinché possa esistere un buon funzionamento di tutta la filiera, servono, secondo me, ordine, identità di vedute e sapienza.
Solo con tutte le informazioni possibili e con la curiosità che occorre sono convinto che il buon insegnante e il bravo medico, cito queste due professioni perché è di queste che ho parlato, possano svolgere con più serenità, ordine e consapevolezza il proprio compito, al fine di trasmettere allo scolaro e al paziente fiducia, conoscenza e salute e di ottenere, quindi, riconoscenza e gratitudine.
Per finire, mi sento di poter affermare che la dote più importante che deve possedere un insegnante, ma soprattutto un medico e qualsiasi operatore sanitario, è quella di saper ispirare fiducia, in quanto è questa, in fin dei conti, che aiuta e che dà speranza nel futuro.
Gian Paolo Speroni
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 22 Gennaio 2022