
MUGELLO – Stefano Monducci si è laureato in Progettazione e Gestione di Eventi culturali discutendo con il Prof. Paolo De Simonis una tesi su Leprino e il suo Museo. Per “Il Filo” ha scritto una serie di articoli che qui riportiamo per ricordare la figura di Leprino e sottolineare l’originalità e il significato della sua opera, che è diventata una risorsa turistica e culturale per la nostra zona.
1. «PRIMA DELLA GUERRA»: GLI ANNI CHE HANNO ISPIRATO LEPRINO
A Sant’Agata, nel 1986 è stato inaugurato il museo «Sant’Agata artigiana e contadina». Il museo è costituito da oltre 60 personaggi di cartapesta – di un’altezza media di 50 cm e dotati di un motorino che consente loro uno o più movimenti – da attrezzi, veicoli e decine di animali in miniatura inseriti in 40 ambientazioni. Questo «presepe animato», ricostruisce la Sant’Agata degli anni Venti del ’900. L’autore di tutto questo è Faliero Lepri, noto come Leprino, che realizza il suo primo lavoro nel 1949, non pensando certo di porre la prima pietra di un futuro museo. Come lui stesso ha dichiarato: «Io fo tutto questo per fare un museo? No! … da bambino prendevo i rocchetti della mamma, facevo i vagoncini poi li tiravo con i’ filo … mi piacevano già i balocchi». Leprino quindi non aveva intenzione di fare un museo, il suo era un «balocco», un passatempo.
Leprino nasce a Sant’Agata, nel comune di Scarperia, l’11 aprile 1921 da una famiglia di commercianti di carbone. Frequenta la scuola e conclude la quinta elementare mostrando una grande attitudine nelle materie tecniche e in disegno che in seguito lo aiuteranno a realizzare i suoi omini animati. Nel tempo libero dalla scuola aiutava il padre nel lavoro di carbonaio e, prima dell’inizio della seconda guerra mondiale, si trasferisce con il babbo a Firenze e lo aiuta nella bottega che ha appena aperto. Dopo la morte del padre, in un tragico incidente con il camion con il quale trasportavano il carbone, nel novembre del ’41 la bottega chiude e Leprino torna a Sant’Agata. Durante la guerra Leprino fu costretto a lavorare come postino per i tedeschi impegnati nella fortificazione della Linea Gotica. Nel ’49, sempre a Sant’Agata, apre una bottega di generi alimentari e nel Natale dello stesso anno espone in vetrina il suo primo lavoro di miniature animate: «la veglia» in cui rappresenta la sua famiglia in una classica scena casalinga. Da allora in occasione del Natale e delle festività, esponeva nuovi lavori tutti ambientati negli anni ’20. Gli “omíni” di Leprino rappresentano i vari mestieri e attività della popolazione di Sant’Agata e del contado circostante; non sono personaggi di fantasia ma persone reali. Parlando della figura del sarto, Leprino racconta: «i’ sarto è quello! Anche come somiglianza è lui». La somiglianza è cosí grande che la moglie del sarto, invece di andare a trovare il suo defunto marito al cimitero si reca al Museo di Sant’Agata!
Leprino lavora alla realizzazione dei suoi personaggi negli anni cinquanta e sessanta, ma tutti riproducono il mondo di prima della guerra. Leprino blocca cosí il suo ricordo e lo traduce in «omíni», parla di quegli anni con occhi bagnati e ne mette in evidenza gli aspetti migliori: umanità e fratellanza si contrapponevano ad una miseria palpabile. A quei tempi erano pochi quelli che disponevano di denaro contante: se il fabbro riparava il carro a un contadino quest’ultimo pagava con quello che aveva (pane, uova, ecc.) o con quello che avrebbe avuto, invitando il fabbro a partecipare alla mietitura a giugno e a ricevere il compenso in grano. Solo i dipendenti pubblici, come l’ufficiale di posta, o i commercianti che avevano rapporti con la città disponevano di moneta. Tra quest’ultimi i familiari di Leprino. Per questo, nonostante la fatica e le difficoltà, erano fra i pochi che si potevano permettere qualche «lusso» ,come quello di comprare i tortellini a Natale. Un «lusso» che però suscitava la disapprovazione dalla nonna che, alla vista dei tortellini acquistati, rimproverava ai figli di essere «scaloni».
Accanto alla miseria di quegli anni Leprino non si stanca di mettere in evidenza la solidarietà e la condivisione di «quello che ci s’aveva»: la polenta, fatta dalla mamma di Leprino, veniva offerta alle altre famiglie. La casa di Leprino non era mai vuota e le porte erano sempre aperte «come se fosse un invito a entrare». Il «licite» (una sorta di WC) situato al piano terra veniva utilizzato da tutti i paesani: «il Paese era una grande famiglia». La domenica quando suonava la banda il paese si trasformava in una festa che durava tutto il giorno. Tutto questo è ancora vivo nella mente e nei racconti di Leprino: quando ricorda il profumo del pane fresco sembra che sia appena sfornato e Leprino lo annusa come se fosse sempre nell’aria.
2. QUANDO IL “BALOCCO” DIVENTA MUSEO
Leprino non aveva intenzione di fare un museo; costruiva i suoi “omíni” (fatti di cartapesta e animati da un motore elettrico che permetteva uno o più movimenti) per diletto. “Omíni” che rappresentavano un mondo (la Sant’Agata degli anni ’20) che, già all’epoca del suo primo lavoro (“La Veglia” del 1949), era vivo solo nei ricordi di Leprino.
Leprino aveva una bottega di generi alimentari e quest’attività gli ha permesso di coltivare la sua passione perché, come lui stesso afferma “se io non avevo il negozio forse questo non c’era … potevo fare l’autista, l’operaio, il muratore …”. Leprino aveva un’officina dietro la bottega e quando non c’erano clienti da servire costruiva i suoi “omíni”. Cosí anno dopo anno la collezione è cresciuta oltre le sessanta unità.
Il Museo di Sant’Agata è stato inaugurato nel 1986 ma il grosso del lavoro era già stato realizzato nel 1976, anno in cui gli “omíni” di Leprino escono per la prima volta dalla sua soffitta per essere esposti al pubblico tutti insieme. “La Galasso, la sindaca di allora di Scarperia con l’assessore di allora il Milani, sapevano che io avevo tanta di questa roba che facevo e poi la mettevo in una stanza”.
Nel 1976, promossa dal sindaco Galasso e dall’assessore Milani, fu realizzata una mostra presso la sala del Ghirlandaio a Scarperia in cui furono esposti per la prima volta i lavori di Leprino. La mostra riscosse molto successo nonostante i dubbi dell’artista Leprino che immaginava che i suoi “omíni” degli anni ’20 potessero essere associati al fascismo, “perché era un’epoca … s’era fatto la guerra, i totalitarismi, il fascismo, dico, ci bastonano ogni cosa a far vedere le cose di prima”.
Da qui in poi il “balocco” diventa museo. Leprino vede che i suoi lavori vengono apprezzati, la paura che aveva di “mostrare” quegli anni diventa consapevolezza di essere testimone di un mondo ormai scomparso.

Visto il notevole successo della mostra fatta a Scarperia i compaesani di Leprino vollero ripetere l’esposizione a Sant’Agata, cosi l’anno successivo gli “omíni” furono spostati nella sala attinente alla Chiesa in occasione della sagra della panzanella che si svolgeva in agosto: la sagra doveva durare tre giorni e cosi anche la mostra di Leprino se non fosse stato per l’interesse che suscitò. La voce si sparse e molta gente chiedeva di poter visitare quella mostra anche dopo la conclusione della sagra, e fu cosí che “da 3 giorni che ci doveva stare la durò 8 anni!”. Il momento d’oro di Leprino culminò con la sua apparizione nel 1981 nella trasmissione televisiva “Portobello” condotta da Enzo Tortora. In Tv Leprino portò alcuni suoi manufatti tra cui spiccava la trebbia, imponente, motorizzata e dotata delle stesse caratteristiche dell’originale. La simpatia di Leprino lo contraddistinse anche in quell’occasione e fu richiamato per un’altra puntata.
Tra i visitatori più illustri Leprino ricorda l’allora Governatore della Toscana Mario Leone che s’impegnò nel far costruire un centro in cui ospitare la mostra in sede permanente.
Il museo che oggi vediamo è inserito nel centro polivalente di Sant’Agata costruito ex novo e inaugurato – come già detto – nel 1986.
Il museo contiene molti burattini (“omíni”) tra cui ricordiamo la figura dell’arrotino, quella del carratore, dello stipettaio (falegname che realizzava bauli e valigie di qualità), del canestrino (fabbricante di canestri) e del chincagliere (vendeva piccoli oggetti come aghi per cucire e simili). Leprino ha ricostruito in miniatura la camera, la cucina, il licite (WC), la cantina, la stalla, la trebbia (macchina per la battitura del grano), la piazzetta del Paese, la mescita e molte altre scene e attività. Le ambientazioni in cui sono inseriti gli “omíni” riguardano scene di vita del Paese e scene di vita contadina mettendo in evidenza il legame che c’era tra questi due mondi solo apparentemente lontani: nella riproduzione di una coppia di contadini mentre si recano al mercato, notiamo la moglie nel viaggio di andata che parte con uova e galline mentre suo marito, nel viaggio di ritorno, porta a casa aringhe, baccalà e qualche soldo in tasca, visto che il pollame valeva di più del pesce essiccato. Un’altra scena che mette in risalto il rapporto stretto tra campagna e paese è quella della battitura: nella trebbia, posta al centro della scena, venivano gettati i covoni di grano precedentemente mietuto nei campi con la ferina (una falce a mano). La battitura era un lavoro enorme che richiedeva un grande numero di operai, provenienti anche dal paese; una volta finito il raccolto iniziava una festa che Leprino definisce il “non plus ultrà” della vita di quei tempi: si mangiava il papero e si ballava a tempo di musica. Un altro momento simile era il giorno del mercato: per l’occasione giungevano a Sant’Agata il magnano (artigiano che aggiustava pentole e simili), l’ombrellaio/sprangaio e l’arrotino. Questi ultimi si ritrovavano in piazza raccogliendo attorno a se molta gente e riempiendo il paese: il cantastorie raccontava le storie dell’epoca e Leprino allora bambino (riprodotto anch’esso con la cartella da scolaro) le ascoltava inconsapevole che un giorno – seppur in modi diversi – lo avrebbe imitato.
3. QUALE FUTURO PER IL MUSEO DI SANT’AGATA
In questo articolo, scritto nel 2012, l’autore poneva interrogativi su come preservare e valorizzare l’opera di Leprino, formulando anche alcune proposte.
Leprino ha costruito da solo oltre 60 personaggi di cartapesta e legno inseriti in 40 ambientazioni che rappresentano molte attività e molti mestieri della Sant’Agata degli anni 20. Questo “presepe” è animato da molti motorini elettrici che permettono agli “Omini” uno o più movimenti ed è diventato ufficialmente museo nel 1986 con sede a Sant’Agata. Tutti gli “Omini” (personaggi) sono persone reali che Leprino bambino ha conosciuto per le strade e per i campi di Sant’Agata e tutti hanno una loro storia che Leprino racconta ai visitatori. Questo racconto lega Leprino e il suo “Omino” in un rapporto complementare: attraverso la voce di Leprino l’“Omino” prende vita e, attraverso l’“Omino”, Leprino ricorda gli aneddoti legati al personaggio riprodotto in miniatura. Questa complementarietà tra il museo e l’autore/guida del museo stesso, rende il “presepe animato” più vicino ad un happening che ad un museo. Quando Leprino parla della figura del Ciabattino, non si limita a spiegare al visitatore che era un calzolaio ma racconta: «a Beppe (il ciabattino) quando gli portavano le scarpe a riparare, persone che non aspettavano d’avelle sciupate, sfondate. Persone come ì Piovano, l’Ufficiale di posta, appena le scarpe l’avevano un forellino sotto le portavano a riparare. A occhio sembrava ’un avessero nulla e quindi il calzolaio se le metteva, la domenica specialmente, e quando in paese il calzolaio incontrava il cliente questo gli faceva: “oh Beppe! Che me le hai finite le scarpe?” il calzolaio se le guardava ai piedi e diceva: “ancora no!”.»
Ogni “Omino” non è solo il mestiere che rappresenta, ogni “Omino” è legato alla memoria di Leprino e in alcuni casi – laddove l’“Omino” non svolge un mestiere ben definito – la voce di Leprino risulta indispensabile per capire la funzione e il motivo per cui l’“Omino” è stato costruito e inserito nel Paese di Sant’Agata. È il caso della rappresentazione del Boccia: la scena è costituita da un ragazzo piegato che discute con i carabinieri. Leprino racconta: «all’epoca del Fascio c’era la tassa sul celibato: cioè chi dopo i 25 anni d’età non prendeva moglie, doveva pagare una tassa. E Questo (i’ Boccia) ’un aveva nulla, gl’era a sedere sugli scalini quando in Paese arriva l’Ufficiale giudiziario da Scarperia e domanda di Frandi Alfonso: “Frandi Alfonso?” nessuno lo conosceva per nome e cognome perché tutti lo chiamavano “i’ Boccia” ma alla fine viene trovato sugli scalini e l’Ufficiale gli chiede: “lei è Frandi Alfonso?” ‘”Si perché?” “non ha pagato la tassa sul celibato” “e icché vor dire?” “io bisogna che venga in casa a pignorare!” (il pignoramento sarebbe il sequestro di un oggetto, di una cosa come la madia o la tavola). I’ Boccia si mise le mani in tasca, prese le chiavi di casa gliele diede all’Ufficiale e disse: “’un ci trovo nulla io che ci sto, se tu ci trovi qualcosa te tu sei bravo!” L’Ufficiale montò in bicicletta: “arrivederci!”.»
Questi esempi rendono ben evidente il doppio filo che lega museo e Leprino. L’uno perde qualcosa senza l’altro. La domanda è come fare a preservare questi racconti e questo legame quando Leprino non potrà più accompagnare i visitatori nel suo museo. Come continuare a far vivere questo museo? Leprino a questa domanda risponde augurandosi “che quello che viene dopo ci mettesse la passione non per costruire, ma a mantenere”. Giovanni Contini – docente di Archivistica dell’università La Sapienza di Roma e Responsabile della Sovrintendenza Archivistica per la Toscana (MIBAC) – alla stessa domanda risponde che sarebbero necessarie una serie di videoregistrazioni nelle quali Leprino racconta gli aneddoti che riguardano i suoi “Omini” per non perdere le performance orali dell’artista Leprino. Tali registrazioni potrebbero essere proiettate nel museo e così facendo gli “Omini” avranno per sempre una voce che li racconta.
Tutte e due le risposte sono congrue e giuste. Il museo deve essere preservato sia dal punto di vista meccanico e tecnico come si augura Leprino sia dal punto di vista della trasmissione orale delle storie come suggerisce l’esperto Giovanni Contini.
Io mi auguro che il museo non perda niente di ciò che ha. Grazie a questo museo, infatti, i bambini vedono il mondo come era una volta e i genitori che li accompagnano sorridono ai racconti del cantastorie Leprino. Ironia, storia, divertimento. È un’alchimia di tante cose questo museo e merita di essere conservato e tramandato di generazione in generazione con tutte le sue caratteristiche.
Stefano Monducci
© Il Filo – Idee e Notizie dal Mugello – 28 aprile 2016